Pubblichiamo, ringraziando l’editore Wojtek, un estratto da “Estasi” di Radoslov Bimbalov, pubblicato nella collana Orso nero, qui presentata dai curatori Emiliano Peguiron e Alfredo Zucchi.

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Nota dell’editore

È trascorso un anno dal rinnovamento della collana di letteratura straniera Orso nero: oltre alla veste grafica, sono cambiati i modelli. Nei cinque titoli pubblicati da maggio 2024 (Grande studio su Baudelaire di Felipe Polleri, Pena perpetua di Ricardo Piglia, La città cannibale di Leandro Ávalos Blacha, Tahiti: Utopia di Michal Hvorecký e Estasi di Radoslav Bimbalov) il territorio che abbiamo tentato di abbracciare si è allargato, sia sul piano geografico sia su quello tematico. Agli autori dell’area rioplatense (Uruguay, Argentina), già cara allo sguardo di Wojtek, si sono aggiunte voci dell’Europa centrale e orientale (Slovacchia, Bulgaria). I temi della marginalità e dell’emarginazione sono divenuti centrali: le desolate periferie argentine di La città cannibale comunicano con il disperato tentativo di migrazione del popolo slovacco verso l’isola di Tahiti nel romanzo di Hvorecký. In Estasi la Bulgaria degli anni Novanta, in transizione dal socialismo autoritario del blocco orientale alle insidiose promesse individualiste del patto atlantico, diventa sfondo per un dramma del desiderio. Come in Grande studio su Baudelaire e in Pena perpetua, il paesaggio e la mappa, nel romanzo di Bimbalov, da esterni diventano interni: il soggetto Mihail, metallaro ventenne, passa attraverso le esperienze terminali dell’eros, della morte e del rapporto col divino. La sua emancipazione è possibile a una sola condizione: l’insubordinazione nei confronti dell’autorità ultima e definitiva. Bimbalov riesce nella difficile impresa di tenere insieme ricercatezza lirica e comicità farsesca, costruendo un’atmosfera rarefatta da teatro simbolista in cui, tuttavia, s’innestano colpi di scena da commedia antica. Il risultato è un’opera da cui si propaga un messaggio indifferibile: il trionfo del qui e ora, della densità inevitabile e tragicomica della finitezza, un messaggio in cui risuona la massima nicciana secondo cui “il mondo apparente è l’unico mondo vero”.

Roma-Vienna, 30 aprile 2025

emiliano peguiron, alfredo zucchi

 

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Estasi

Ogni minuto in cui siamo vivi inspiriamo

ed espiriamo almeno quindici volte.

Lo facciamo involontariamente, per fortuna.

Se ci pensassimo non faremmo nient’altro.

Il nostro cammino terreno sarebbe soltanto un noioso,

schiavizzante respirare.

 

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prologo

 

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nei

fili d’erba

notturni

brillava

un cordone di paia di piccoli occhi. Sapevo di chi erano: volpacchiotti usciti fuori dai cespugli. Le due gomme masticavano rumorosamente l’erba. L’uomo, avvinghiato al manubrio, inghiottiva esilarato moscerini a ogni sorso di vento. Stavo cavalcando il sedile dietro di lui e lo vedevo da vicino: non era rimasto nulla della persona mite che avevo incontrato il giorno precedente. Il suo viso era distorto dall’euforia, deformato dall’indescrivibile piacere di sfrecciare con un’enorme, ringhiante motocicletta nel bel mezzo dell’oscurità assoluta.

Il fanale non era acceso, non aveva senso. L’uomo che spingeva fino in fondo sull’acceleratore sin dalla nascita viveva in un buio costante. Adesso mi pare che i suoi occhi non vedenti stessero bruciando: le sue torbide pupille incolori scintillavano all’impazzata, fisse nel nulla.

Io ci vedevo nonostante la notte. Stavo volando sul sedile posteriore di una motocicletta guidata da un cieco attraverso i ritti fili d’erba. Sapevo cosa stava per succedere, ovviamente. Perciò non sussultai nemmeno quando la gomma posteriore slittò e la moto prese ad avvitarsi tra i roveti e i volpacchiotti spaventati, rimestando l’oscurità come un’impazzita trottola lucente. Arrivammo sull’orlo del precipizio comparso all’improvviso e librammo verso il fondo. Cademmo brevemente. La motocicletta s’infranse con un terribile schianto sugli scogli, mentre il fuoco divampò per rabbonirci in una mite, letale fine.

Sarei dovuto morire laggiù in fondo, insieme al cieco che guidava quella moto, ma non era possibile. Ero morto anni prima.

***

ricordo

i luminosi

giorni

andati

in cui il sole sgranocchiava il frumento ai lati della strada. Le gambe nude di Lara, aggrappate spensieratamente al cruscotto, fissavano oltre il parabrezza, la sua risata si librava dal finestrino aperto per rincorrersi con le farfalle. Senza distogliere lo sguardo dalla strada, alzavo la musica, mentre le mie dita si infilavano nella rossiccia boscaglia dei suoi capelli. Lei mi afferrava il palmo, lo rivolgeva contro il proprio viso e ci appoggiava le labbra calde. Il suo respiro correva lungo la mia pelle, strisciava in alto fino alle spalle e mi sollevava i peletti del collo per poi girare verso il viso e fondersi con il mio quasi invisibile sorriso. «Sarai sempre con me, vero?», cercava lei di sovrastare il vento e la musica. «Fino all’aldilà e ritorno», gridavo io la mia eterna parola d’ordine.

Lara. La ragazza dai rugginosi capelli, come amavo chiamarla io, per tirarle fuori quella gorgogliante risata che zampillava attraverso la morbidezza delle sue labbra. Poi lasciavo che mi saltasse addosso e mi morsicasse il collo con un ringhio che mi vibrava fin dentro l’ombelico.

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