
Giorni tragici si susseguono in un Kentucky oscuro, attraversato da scosse ancestrali che indirizzano gli uomini e le donne a compiere azioni come fossero guidati da meccanismi superiori, indicibili. È un destino fatale e crudele, segnato dal dolore, quello che pervade le pagine gotiche di Il giardino di marmo, romanzo d’esordio di Alex Taylor, scrittore che si può collocare nel solco di una grande tradizione narrativa, quella del southern gothic americano. Un modo di intendere la letteratura distante dalle due coste – l’est e l’ovest delle metropoli, i club letterari più esclusivi, le università à la page – per ricadere invece con la testa e con il cuore nei margini, nel cuore nero dell’America più povera e miserabile, sporca e fanatica, dimenticata dal mainstream; una tradizione che è non solo letteraria ma anche cinematografica e musicale, e che vanta su tutti due numi tutelari e nobilissimi del Novecento come Flannery O’Connor e William Faulkner.
La storia raccontata da Taylor si snoda lungo il fiume Gasping, impetuoso, dalle profondità insondabili, pronto a risucchiare ogni mistero o a scatenarne di nuovi. Qui, in una regione che sembra essere sospesa in un altrove dal resto dell’America, Clem Sheetmire si guadagna da vivere portando viaggiatori sempre più occasionali da una parte all’altra della costa, a bordo del suo traghetto: vive con sua moglie Derna e il figlio adolescente Beam, cresciuto selvatico come la natura che lo circonda, taciturno e afflitto da narcolessia, il disturbo che lo porta ad addormentarsi nei momenti più improvvisi. Ereditato il lavoro dal padre, durante una notte che farà da innesco per gli eventi successivi compie un’azione che lo porterà a fuggire dalla propria famiglia. Una fuga che condurrà Clem tra boschi popolati da uomini e donne di ascendenza infernale o paradisiaca, destinati a fondersi in un unico affresco tinto di sangue, violenza e pochissima luce a illuminare cimiteri abbandonati e bettole di quart’ordine.
Dice Loat Duncan, uno dei personaggi più riusciti del libro: «Il sangue è l’unica cosa su cui puoi contare. Non esiste nient’altro. Non nel luogo da cui vengo. È il sangue o non è niente. Soldi, donne, terra – niente di tutto ciò può essere paragonato al rendere giustizia a un uomo o dargli ciò di cui ha bisogno». Avvinghiato alle pagine, il lettore aprirà ogni volta una porta su un mistero nuovo, unendo lentamente i fili addensati nella trama, sospinto dal ritmo, dalla velocità alle azioni imposta da Taylor; anche quando non si tratta di movimento puro, di thrilling e di pistole che sparano e furenti cani che latrano e mordono, il meccanismo narrativo di Il giardino di marmo tiene su una suspense continua. Il racconto è scandito dal passare dei giorni, ognuno porta con sé una tessera in più al mosaico, i personaggi escono e rientrano, si rincorrono, finiscono con l’incrociarsi e entrare in una collisione che difficilmente si risolve senza turbolenze, regolamenti di conti sepolti nella memoria. Non è blasfemia accostare qua e là la narrativa furiosa di Taylor a quella di un maestro come Cormac McCarthy, per quanto la precisione, le vette assolute toccate dall’autore di capolavori come Meridiano di sangue siano distanti, irraggiungibili.
Da parte sua, Taylor mostra di saper manovrare una materia così densa di mistero. È superba la descrizione dell’atmosfera sul fiume Gasling, così come ci dicono qualcosa gli odori (dei fiori così come del whisky, e della terra) e i suoni provenienti dalla foresta. Tutto plasma il racconto, sempre serrato; ambiente e pensieri sono in stretta connessione tra loro, quasi fossero collegati da una corrente sotterranea, invisibile eppure presente. Come in questa sequenza, quando la storia deve ancora esplodere, e Clem se ne sta sul suo traghetto avvolto dalle tenebre: «Una folata di vento si levò dal fiume e tamburellò contro il suo giaccone e il sudore sulle sue guance si raffreddò e poi ricordò di nuovo sua madre, e quello che aveva sentito dire di lei, persino da ragazzo, quando a dirlo erano altri ragazzi che non sapevano davvero cosa significasse dire cose del genere. E l’odore dei fiori di carrubo, spettralmente bianchi e trascinati sul fiume nero increspato dal vento, lo raggiunse nuovamente, intenso e dolciastro, e sentì i rami oscillare, le foglie tremolare come pioggia nell’oscurità».
Detto dei riferimenti letterari, un romanzo altamente visivo come Il giardino di marmo non può non richiamare alla mente il cinema di un Quentin Tarantino (magari quello di The Hateful Eight) o dei fratelli Cohen nella loro versione più thriller. L’epilogo, se possibile, riesce a contenere in una duplice visione il buio e la luce esplosi nel romanzo, condensandoli in pochi passi, rarefatti, ricordando che ogni atto umano, persino il più terribile, è destinato a perdersi nello scorrere indifferente della natura.
Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell’agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.