
Pubblichiamo un pezzo uscito su Tuttolibri, l’inserto culturale de La Stampa, che ringraziamo.
Il nuovo libro di Don DeLillo comincia con una banalità. È una citazione molto famosa di Albert Einstein utilizzata come epigrafe: «Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni.» È probabile che Einstein non lo abbia mai detto, non esistono tracce di questo aforisma nei suoi scritti, ed è solo una delle tante massime apocrife che infestano il Novecento. Ormai è qualcosa che potrebbe dire chiunque voglia imitare il pensiero profondo di qualcun altro, una frase senza padri e senza testimoni, buona per tamponare il silenzio quando siamo dinanzi a un evento ineluttabile. DeLillo lo sapeva quando l’ha scelta?
Il nuovo libro di Don DeLillo comincia anche con un’eccezionalità: Jim Kripps e Tessa Berens sono su un volo da Parigi a Newark che va in blackout e sono costretti a un atterraggio fortuito, da cui escono incolumi e spaventati. Un incidente aereo è un evento statistico probabile, ma la statistica viene polverizzata dall’abitudine del viaggio e dalla fede incondizionata nella tecnica, ragion per cui anche in questo libro ci appare come soprannaturale. In realtà, il loro incidente si rivela connesso a un disastro più ampio: mentre Jim e Tessa perdono quota insieme agli altri passeggeri, tutta New York, e si sospetta anche il mondo, smettono di funzionare. Azzerata la connettività, si oscurano gli schermi, si arresta il flusso delle informazioni, e nessuno sa più niente: «Niente e-mail. Provate a immaginarlo. A dirlo. Sentite l’effetto che fa. Niente e-mail.»
Banalità ed eccezionalità sono le due chiavi fondamentali per entrare ne Il silenzio, la nuova opera «dell’ultimo americano», tradotto per Einaudi da Federica Aceto. Non è un romanzo, è più un racconto lungo deformato dalla pressione di una pièce teatrale, genere a cui DeLillo si è prestato con Valparaiso e Love-lies-bleeding. Anzi, è proprio Love-lies-bleeding a fornire un indizio su dove collocare Il silenzio nella sua vita da scrittore, per capire dove si trova DeLillo in questo momento, nello spazio e nel tempo: così come Love-lies-bleeding parlava di malattia terminale, di avvicinamento progressivo alla morte e di un rapporto estraniato tra padre e figlio anticipando i temi di Zero K che sarebbe uscito dieci anni dopo, durante la lettura de Il silenzio si instaura il fortissimo sospetto di un lavoro preparatorio, ammesso che DeLillo riesca mai a finire l’ultimo romanzo che ci aspettiamo da lui (e lui da se stesso). Se è una gara contro il tempo e la malattia questa, Il silenzio pare quasi una promessa, la certificazione di una presenza.
È un pensiero consolatorio, seducente, ma che arriva in una forma cupissima: tra tutti i suoi libri, è uno di quelli che si avvicina di più all’horror. C’è una tensione drammaturgica e semi-parodica tra i vari protagonisti e il loro modo di interagire, ma la tensione scivola spesso verso l’unheimliche, il perturbante freudiano che contestualizza uno spavento attuale all’interno di qualcosa di familiare, di noto, quasi di pre-scientifico. È una paura arcana, quella che si percepisce durante la lettura, nonostante abbia tutti i crismi dell’apocalisse contemporanea, nonostante si parli di cripto-valute, di hackeraggio e controhackeraggio e dell’«insonnia di massa di questo tempo inaudito.»
Finora il collasso della rete su scala mondiale non è mai avvenuto se non per brevi istanti – basta pensare alla scomparsa della posta elettronica su Gmail lo scorso dicembre e al panico e all’ironia che ne sono conseguiti –, ma non è qualcosa che sentiamo di aver già sperimentato, di aver subito migliaia di volte, qualcosa che fa parte della genesi stessa della rete e del nostro terrore di smarrirci in essa? Ogni giorno, anche se tutto attorno a noi funziona, non proviamo il desiderio che questo funzionamento si inceppi almeno un po’, nella consapevolezza che dovevamo preservare almeno una parte minima di noi stessi dalla macchina, proprio per salvarci dalla Terza guerra mondiale dei finti aforismi di Einstein? C’è chi vive questo desiderio con ingenuità, chi con cinismo, chi lo ricollega alla crisi del capitalismo e chi a una crisi di fede. DeLillo non si presenta come un umanista moralizzatore, il suo talento immenso lo ha sempre salvato dall’«insegnamento», ma riesce a far pulsare questo desiderio, anche se ormai il cuore che lo contiene è quasi del tutto nero, quasi del tutto scuro, e quasi del tutto andato.
Una volta atterrati a Newark, Jim e Tessa sarebbero dovuti andare a vedere il Superbowl a casa dei loro amici Max e Diane. Lui è un appassionato di football e delle scommesse sportive, lei un’ex insegnante di fisica che ha invitato il suo vecchio allievo Martin Dekker, un ragazzo genialoide sui trent’anni o poco più. [Un giorno bisognerà scrivere un libro sul talento di Don DeLillo per i nomi dei suoi personaggi: Klara Sax, James Axton, ora Martin Dekker, sono nomi che hanno già tutta una storia dentro; sceglie sempre suoni che contengono un passato e un futuro, oltre al presente.]
Nel momento del blackout, Max e Martin hanno due «crisi della presenza» parallele, tanto per tirare in ballo Ernesto De Martino e le sue apocalissi culturali: il primo inizia a sostituirsi alla telecronaca della partita, prima con la voce e poi con il corpo. Non solo imitagli spot pubblicitari, ma anche le azioni del gioco con i suoi movimenti ectoplasmatici. È una scena spaventosa, non tanto perché ricorda la lentezza dei personaggi di Melancholia di Lars Von Trier mentre si avvicina l’asteroide che li annienterà, ma perché evoca la vitalità delle scene sportive nei romanzi dello stesso DeLillo, arrivando a dissacrarle, ad esserne il rovescio oscuro: in End Zone (con il football) e in Underworld (con il baseball), DeLillo trasformava lo sport in una guerra senza sangue, in una festa epica, in un delirio spirituale fatto di carne ed elettricità, ma soprattutto da quella forma che gli è tanto cara: la «massa». Ne Il silenzio, nell’atto sportivo solitario e fuori sincrono di Max, di masse e di espiazioni collettive non ce ne sono. La massa è anche un concetto fisico, la materia di cui Martin è esperto. Non appena lo schermo si oscura, Martin inizia a snocciolare informazioni di fisica, a rigurgitare tutto quello che ha imparato tentando di applicarlo alla realtà, in un reflusso di sapienza che tradisce la spettralità delle informazioni assorbite male. Ma sembra che stia imitando il pensiero profondo di qualcun altro, e non a caso inizia a fare la voce di Einstein che parla in inglese, dando l’idea di «un genio o di uno squilibrato».
La figura dello scienziato giovane e disadattato non è innovativa in letteratura: basta pensare a certi personaggi di David Foster Wallace, di Joshua Cohen o allo stesso ragazzino prodigio ne La stella di Ratner di DeLillo, ma proprio come accade per lo sport, anche qui avviene uno svuotamento: il tema della genialità viene scheletrizzato. Martinsi desatura, e diventa solo una funzione del linguaggio.
Nell’emorragia di significati dovuti alla scomparsa delle trasmissioni televisive, delle reti cellulari e dall’impossibilità di controllare le informazioni in tempo reale, in tutta la conoscenza che si sgretola e si perde perché non sappiamo ricordare più niente senza un sostegno tecnologico, pare perdersi anche la letteratura. Paiono svanire anche i libri che abbiamo letto, i libri che DeLillo ha scritto, si dissolvono i suoi personaggi, li manda in blackout: raramente ho visto un autore cannibalizzare sé stesso in questo modo, fosse anche tramite una malinconica parodia come avviene in questo racconto, ed è stata questa crudeltà a farmi sospettare che fosse tutto voluto. Che non fosse la mancanza di ispirazione a guidare DeLillo mentre scriveva Il silenzio, ma fosse una feroce ispirazione al cospetto di sé stessa mentre tutto là fuori muore, e tutto là fuori tende a una fine.
Anche se in superficie Il silenzio usa la teoria della relatività dello spazio e del tempo di Einstein per provare a spiegare il collasso, in realtà la vera teoria della relatività è quella che riguarda l’informazione: senza la possibilità di verificare l’attendibilità di qualcosa, tutti i significati si equivalgono e di dissipano in un buco nero. Mentre erano sull’aereo, per gestire il tedio del volo, Jim si era focalizzato sullo schermo con le notifiche sul tragitto, «Parole, frasi, numeri, distanza destinazione», finché queste parole non erano scomparse. Quando a Tessa non sovviene il nome di Celsius, e poi le viene fuori da un recesso della memoria, Jim le chiede subito se lo ha controllato sul telefonino nonostante siano ad alta quota. Non ci si fida più di quello che si sa se non viene da un luogo comprovato: che fine fa il mistero dell’individuo in queste circostanze? Il nome di Celsius le viene «fuori dal nulla. Non viene più quasi niente fuori dal nulla. Quando un elemento mancante viene a galla senza l’ausilio di alcun supporto digitale, ognuno lo annuncia all’altro con lo sguardo perso in lontananza, l’aldilà di ciò che si sapeva un tempo e che è andato smarrito.» L’inconoscibilità vergine e spaventosa delle cose e cosa resta dell’animo umano, ecco il vero terrore a cui allude Il silenzio, ed ecco il punto in cui il libro si sostanzia in vera letteratura.
Don DeLillo è sempre stato un maestro del «prima», un sublime diagnosta della febbre fredda che ci portiamo in corpo ma che non sappiamo ancora misurare. Basta pensare a Rumore Bianco del 1985, a quell’«airbornetoxicevent», l’«evento tossico aereo» a cui in molti abbiamo pensato durante le prime fasi della pandemia. Con Underworld, non vedeva le torri gemelle crollare, ma disegnava la città in cui quel collasso poteva avvenire, a partire dai terroristi che aveva raccontato in Mao II, ne I Nomi. DeLillo è stato meno bravo con il «dopo»: non a caso il suo romanzo meno riuscito, Falling Man, è proprio quello che si confronta con un evento avvenuto ma non ancora storicizzato, un evento senza documenti (l’assassinio di JFK e la figura di Leo Oswald invece erano pieni di documenti studiati ai limiti dell’ossessione, da cui il capolavoro Libra).
Cosa succede a Don DeLillo «durante»? Il silenzio è una presa diretta di questo durante, con tutte le sue aspirazioni e i suoi limiti. Sapere le cose insieme a noi, scoprirle insieme a noi durante lo scorso anno, dentro una compresenza e ripetitività mondiale di eventi in cui la storia si è riconfigurata come allucinazione e viceversa – anche l’allucinazione è diventata storia – ci restituiscono un DeLillo «comune», a tratti dolorosamente spaventato. Il modo in cui Martin sul finale dice «Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?» rende bene la nudità di questo dolore. Dichiarandolo, DeLillo si è assunto il rischio: quello di dirci che non può essere né un profeta né un diagnosta al momento, ma solo un testimone imperfetto. E che non sa e non si può scrivere di morte in maniera diversa adesso.
Sono anni che DeLillo si confronta con il tema della fine, da Love-lies-bleeding a Zero K appunto, ma è la prima volta che lo fa senza nessun tipo di trascendenza. Ne Il silenzio c’è semmai lo spiritismo, non la spiritualità: il libro di schiude con una sorta di seduta medianica frammentata in cui nessuno dei protagonisti vuole evocare qualcosa che sia di conforto e di utilità all’altro; è venuto completamente meno il tentativo di creare un significato importante per tutti, e restano solo parole dirette al vuoto, in un eccidio comunicativo totale.
La banalità, lo svuotamento, la rinuncia alla trascendenza: in questo atto teatrale, DeLillo si è smaterializzato e non è ancora tornato. Ci costringe a stare nella sua temporanea scomparsa, a fissare lo schermo nero, in un intervallo di tempo in cui percepiamo i suoi lampi elettrici e i suoi contorni, sentiamo l’eco della sua voce, e aneliamo alla sua piena manifestazione. È un posto scomodo in cui stare, un posto in cui la vita così come la conosciamo da sempre smette di funzionare. Un posto in cui una persona che amiamo si confonde con tutte le ripetizioni e banalità a cui siamo sottoposti nella rifrazione degli stessi giorni: è bellissimo il modo in cui DeLillo in ogni libro rinnova il suo interesse per la forma della coppia e come parla una coppia, è sufficiente soffermarsi sul modo in cui dopo l’incidente Tessa chiede «Abbiamo paura?», un plurale che è di simbiosi e di preziosa abitudine. Un posto in un maestro che ci ha sempre insegnato a pensare si limita a darci le informazioni, senza troppi indizi su come assemblarle per costruire qualcosa e arrampicarci fuori dal reale.
È un luogo angoscioso e cupo, ma al momento è l’unico che abbiamo, e ci dobbiamo stare. E continuo a pensare che Don DeLillo, l’ultimo americano, fosse l’unico scrittore al mondo che avesse la potenza, l’onestà, e il coraggio di darsi in sacrificio per dircelo. In Cosmopolis sta scritto: «Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito.» Ne Il silenzio non siamo morti, e non siamo finiti, ma il mondo sì: la quarta guerra sarà una genesi, e si combatterà con le parole.
Claudia Durastanti ha pubblicato per Marsilio i romanzi Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (2010) e A Chloe, per le ragioni sbagliate (2013) e per minimum fax Cleopatra va in prigione (2016); un suo racconto è incluso nell’antologia L’età della febbre (minimum fax 2015).