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Pubblichiamo un pezzo uscito su Robinson, l’inserto culturale di Repubblica, che ringraziamo (fonte immagine).

Una scrittrice scrive una lunga lettera al suo mentore, che si è appena suicidato. Gli racconta il funerale, com’è stato prendere in casa il suo cane. E ripercorre il passato comune, un’amicizia letteraria che è stata sensuale, possessiva, sincera.

Ma trama e argomento del libro non contano davvero. Conta la tessitura equilibrata ma densa dei dettagli, e ancora di più conta il fatto che L’amico fedele, il romanzo di Singrid Nunez vincitore del National Book Award, è lo stato dell’arte della narrativa americana. Questo romanzo breve è l’opera con cui possiamo riassumere cosa è successo da quando, diciamo dopo Libertà di Jonathan Franzen e il Cardellino di Donna Tartt, i lettori forti americani hanno iniziato a desiderare anche opere meno grandiose; intanto che si congeda la generazione di Roth e DeLillo, i lettori scoprono di aspettare con meno urgenza il nuovo Grande Romanzo Americano.

L’amico fedele rientra nella categoria delle “eleganti meditazioni sul dolore”, detto col linguaggio delle recensioni. Contiene alcuni ingredienti che si possono trovare in molti libri contemporanei: un’aneddotica interessante, divisa in brani accessibili, mescolata a crudi racconti del dolore; sullo sfondo, uno scenario borghese di cui è semplice capire le coordinate, ma contrapposto a meditazioni su grandi questioni sociali. E l’osservazione filosofica del comportamento degli animali.

Questo genere di libro può essere visto come un vero e proprio oggetto di design, che si preoccupa di come viene maneggiato, gioca con bisogni e aspettative invece di lanciarsi all’inseguimento di strade ignote. È un oggetto compatto che può darci bellezza a margine della frenesia della rete e dell’incertezza del futuro: è costruito su piccoli scorci che stanno bene anche da soli, dovessimo, stasera, avere tempo di leggere al massimo una pagina: “Una volta vidi una fotografia in una rivista: una lunga fila di uomini che serpeggiava fuori da una baracca usata da alcune prostitute adolescenti”. Si vuole dire quanto è ordinario lo sfruttamento delle donne. “Molti di loro fumano sigarette. Uno guarda l’orologio, un altro scruta il cielo, un altro ancora legge il giornale”. Sembrano in attesa – così chiude il paragrafo – “dell’autobus, o del loro turno alla motorizzazione civile”. Un quadretto essenziale, con un uso tolstojano della descrizione.

La vita delle donne nel mondo patriarcale è uno dei temi. (Il morto era un donnaiolo, somigliava, scrive la narratrice, al protagonista di Vergogna di Coetzee, con la cui prosa apodittica Nunez si confronta e combatte con gusto.) È un tema che ispira paragrafi essenziali, luminosi. A volte magari gli aneddoti isolati possono risultare forzati: “Una ricerca su Google mi rivela che l’alano è considerato l’Apollo dei cani”, o l’elenco dei dischi suonati al cane: “Miles Davis. Gli metto Bach e Arvo Pärt, Prince, Adele e Frank Sinatra. E Mozart, tantissimo Mozart.” Più spesso, l’autrice li indovina: “A Broadway, in Astor Place, vedo un cane tutto solo circondato da effetti personali…”

Alle spigolature si contrappone una trattazione del dolore che punta all’immediato più che alla creazione di archi narrativi. “Hai sempre sofferto di depressione. E mai in forma così grave, dice, come in quei sei mesi dell’anno scorso, quando quasi non riuscivi ad alzarti dal letto e non scrivevi una parola”. Ci sono anche i dolori delle donne vittime degli uomini, come la quattordicenne appena salvata “da una casa dov’era incatenata a una brandina nel seminterrato”.

Ma se tutto intorno il mondo è orribile, il quadro in cui si ambienta la storia è sempre il rassicurante contesto borghese, dove le mogli sono antipatiche e numerate (il protagonista ne ha avute tre), le amanti hanno i rimpianti, non spira alcuna utopia. “Moglie Tre. Ricordo che ci dicevi che era una roccia. (La mia roccia, dicevi.)”. “Moglie Uno. Un amore innegabilmente sincero e appassionato. Ma non fedele, non da parte tua”.

L’alter ego di Nunez segue queste vicende a distanza, vivendo ai margini, disinteressata agli status e ai soliti oggetti del contendere. Il suo sguardo è intelligente e rabbioso, viene voglia di seguirla altrove, lontano dalle beghe coniugali e letterarie.

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Autore

francesco.pacifico@gmail.com

Francesco Pacifico è nato a Roma nel 1977, dove vive. Ha pubblicato i romanzi Il caso Vittorio (minimum fax), Storia della mia purezza (Mondadori) e Class (Mondadori). Ha tradotto, tra gli altri, Kurt Vonnegut, Will Eisner, Dave Eggers, Rick Moody, Henry Miller. Scrive su Repubblica, Rolling Stone, Studio.

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