Pubblichiamo un pezzo uscito sul Venerdì, che ringraziamo.

Usiamo troppo spesso la parola “capolavoro”. Bisognerebbe centellinarla, invece, come si fa con le cose davvero buone per l’anima. Perché non sono così frequenti le cose buone per l’anima.

Stavolta però non ci sono dubbi. Il capolavoro epico che in moltissimi aspettavano finalmente è arrivato. Dalla sua pubblicazione in Grecia sono passati ottantadue anni. Dalla celebre traduzione inglese sessantadue. Fortunati, forse, coloro che non ne sapevano nulla, non lo aspettavano e adesso devono soltanto aprirne l’edizione sontuosa per  immergersi in un’esperienza estetica travolgente.

Capiterà di tutto al lettore seguendo le peripezie dell’Ulisse che Kazantzakis creò in oltre tredici anni di lavoro, sette riscritture e un lavoro di lima inaudito per raggiungere il numero magico dei 33.333 versi in decaeptasillabi, il metro più simile all’esametro omerico.

Assisteranno a un viaggio di scoperta, avventura, esplorazione in cui l’autore cretese, famoso per Zorba il greco, cercò di mettere tutto – filosofi, mistici, religiosi, personaggi letterari, assieme a esplorazioni, guerre, scoperte, ideali morti e risorti, follia, ebbrezza, lotta contro la morte.

Tutto, forse troppo. Ma la grande anima deve tracimare di quel che ha messo insieme in una vita di sfide. Solo così può lasciar bere a chi ne abbia bisogno le acque fredde che esondano. La legge nietzscheana domina il poema che appare come un seguito dell’Odissea e che diventa invece una sua trasformazione, un flusso ininterrotto attraverso tre millenni di storia.

Chi a esso si concede, del resto, scoprirà che più che le idee contano le immagini, conta il racconto, il canto che culla e che irretisce, la lingua su cui Kazantzakis lottò giorno e notte andando a cercare per tredici anni 7.500 parole in via di sparizione pur di salvarle nella sua Arca di Noè. Il lettore, allibito, si troverà a vivere in un altro mondo, una dimensione dominata da un’altra divinità, quella del vitalismo solare, da cui difficilmente riuscirà a liberarsi. E infine dovrà soltanto ringraziare chi di quel mondo gli ha garantito l’accesso.

Ossia un traduttore sublime, un poeta che dà voce ai poeti, un altro folle appassionato esploratore dei confini umani, che come Kazantzakis e l’Ulisse protagonista del poema si è lasciato andare alla deriva, vagando per oltre sette anni in mari ignoti, ritrovando ogni suono, ogni senso nascosto e ricostruendo la luce, il colore e il magico equilibrio di un’opera immensa: Nicola Crocetti.

 

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Autore

matteonucci@minimaetmoralia.it

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L'abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L'eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L'Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it

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