
«Parliamone come se esistesse» ha scritto Roland Barthes in Il piacere del testo e questa formula apodittica e un po’ misteriosa, non priva di un possibile e volontario travisamento dell’oggetto di cui poi si parla e pienamente rispondente all’elegante sfuggevolezza della prosa barthesiana, risuona come impossibile, e quindi perfetta, caratterizzazione di un genere, il saggio, le cui forme non hanno alcuna possibilità di essere definite una volta per tutte. Accarezzando le forme di questo azzardo letterario e provando a valutarne le ricadute sulla sua opera e sulla sua vita, Brian Dillon in Scrivere la realtà. L’arte del saggio perfetto (pubblicato da Il Saggiatore con la traduzione di Andrea Sirotti) costruisce uno spazio dove il saggio viene sezionato ed esplorato e vengono interrogate le sue possibilità di descrivere l’uomo e il mondo.
Essayism, questo il titolo dell’edizione inglese, arricchito in quella americana dall’esplicativo sottotitolo On form, feeling and nonfiction, è un libro dove Dillon mette alla prova la forma saggistica tirandone i confini e le prerogative, immergendo una riflessione estremamente letteraria, e che fa riferimento, tra gli altri, a Roland Barthes, Susan Sontag, Maurice Blanchot, Joan Didion o Cyril Connolly, tra le pieghe della propria esistenza, confrontandosi con il suo modo di leggere questi libri e con gli eventi che hanno costellato la sua vita, dalla fine della sua lunga storia amorosa alla depressione («Ho sempre saputo che un giorno mi sarebbe stata diagnosticata la depressione, proprio come a mia madre. Ho pensato che nella mia famiglia funzionasse così»).
«Ero e rimango del tutto incapace di elaborare sulla pagina un argomento ragionato e coerente, tanto meno di descrivere me stesso» scrive a un certo punto Dillon e in questa confessione non c’è alcun desiderio di giustificare un libro dove sono altri libri a provare a fornire questa descrizione, ma piuttosto la misura di una caratteristica della letteratura contemporanea che, per almeno buona parte del Novecento, può procedere solo per frammenti, confessioni a mezza bocca e utilizzare maschere letterarie per coprire un’assenza di senso. Allora Scrivere la realtà funziona come straordinaria bussola per riconoscere da un lato le forme storiche e oblique della saggistica (i primi capitoli ripercorrono per brevi cenni proprio la storia del saggismo) e, dall’altra, di vedere come questa forma possa essere ancora in grado di raccontare il rapporto eccezionale tra vita e parola in una società dove qualsiasi desiderio di completezza è destinato a essere frustrato. Il libro infatti assume un forma quasi concentrica: dai capitoli iniziali dove l’attenzione si posa sull’oggetto di questo libro (sulle origini del saggio, sul deviazionismo che ne abita ogni prospettiva, sulla sua mancanza di completezza e sull’attrazione per la forma che, come un demone, abita chi ne fa uso), Dillon passa pian piano a enucleare come queste scritture incidano sulla sua visione del mondo e sulla sua scrittura, ingrandendo sempre di più il suo punto di vista.
A partire dal capitolo Dispersione, straordinario esercizio di micro-critica che analizza il valore delle particelle atmosferiche che abitano i saggi e i romanzi di Virginia Woolf, Dillon si imbarca in una riflessione introspettiva che si concentra su come la sua primaria attività di scrittura si condensi in testi brevi («ho preso a pensare che questa propensione verso le forme brevi debba essere anche l’espressione di quell’ansia, non solo la sua cura»), su un coraggioso capovolgimento del rapporto tra scrittura e depressione («e se l’affinità rovinosa e salvifica tra depressione e saggio fosse ciò che ti ha portato in primo luogo in questa situazione?»), su come lo stile sia un ricerca che non scivola solo nell’estetismo ma diventi scrittura stessa (molte belle le pagine dedicate a un saggista sui generis Cyril Connolly, il Palinuro autore dell’importante La tomba inquieta, «nostro contemporaneo di saggismo»), sul valore della frammentarietà e degli aforismi nella loro possibilità di toccare il dettaglio o su come La camera chiara di Roland Barthes sia un esempio perfetto, proprio perché non parla propriamente della fotografia, di saggio e su come la ricerca del semiologo francese sulla madre risuoni nel suo profondo.
Parlando del Tentativo di esaurire un luogo parigino di Georges Perec, altro autore fondamentale per comprendere la dispersione che la forma saggistica agita, Dillon riflette su come in questo libro l’autore si debba scontrare con l’impossibilità di affrontare tutto ciò che l’occhio osserva, di come pian piano una cosa prenda il sopravvento su un’altra e scrive che questo piccolo libro rivela un curioso effetto del saggio: questo «si allontana invariabilmente dagli oggetti a portata di mano per entrare nei domini della speculazione e persino della fantasia, perché questa è la libertà che tale attenzione permette». La libertà di cui parla Dillon in riferimento al saggio può essere certamente una delle spiegazioni per l’attrazione verso questo tipo di scrittura e per comprendere come la molla della curiosità (un esempio su tutti, e molto lontano nel tempo, il medico Thomas Browne, autore di eruditi e straordinari cataloghi) innervi le sue forme più estreme, rivelando per esempio l’insospettabile interesse per un elenco o per la collezione di immagini, un lavoro incompiuto che chiede poi al lettore di mettere insieme i pezzi.
Lo storico dell’arte Roberto Longhi, nel suo saggio Prospettive per una critica d’arte, scrive che la critica è una «storia di evasioni» e così può essere considerato il saggio che trova la sua forma proprio nell’informe, nella possibilità perduta di aderire all’oggetto di cui parla, che può essere tanto la morte di una falena quanto «ciò che un altro autore ha imparato di sé il giorno in cui perse i sensi», «che effetto faceva volare in alto sulla capitale quando il volo era ancora una novità» o il resoconto di ciò che è «passato nella testa dell’autore negli istanti precedenti un incidente con la carrozza postale» per citare alcuni esempi portati da Dillon. La natura impraticabile del saggio e, contemporaneamente, l’attrazione verso le sue forme, suggeriscono un percorso senza fine, un cominciamento continuo alla ricerca della concretizzazione di quell’estremo suggerimento di Cioran: «Non bisogna costringersi a un’opera, bisogna solo dire qualcosa che si possa bisbigliare all’orecchio di un ubriaco o un morente».
Scrivere la realtà non è quindi un libro che offre risposte definitive, perché queste probabilmente non ci sono, ma si inserisce perfettamente nel taglio che il saggio opera sulla realtà, in quella fessura di difficile conoscenza abitata soprattutto da fantasmi e soggetti astratti, un libro che, come ogni autentica ricerca e, ancor di più come ricerca critica, non mira a concretizzare e ritrovare l’oggetto che cerca, ma mette in bella mostra, piuttosto, la sua inaccessibilità.
Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L’indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie “Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett”, “Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi” e “Un’esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico”