Materiali resistenti (HarperCollins, 2025) non è un romanzo: è un’autopsia, il sezionamento di una porzione di abbandono, l’anatomia del disamore. Tutto rimane al proprio posto tranne quello che non c’è più, tranne chi se n’è andato, e l’assenza scava, scava, sviscera il suo vuoto all’interno di gesti quotidiani che non saranno mai più puliti, mai più interi: un maglione lasciato appoggiato a una sedia che non si osa spostare per paura che si sgretoli a contatto con la realtà di adesso che, nessuno lo vede, ma non è più quella di prima.

Francesca Marzia Esposito analizza ogni dettaglio della fine di un amore con una penna che si sostituisce al bisturi, che sa far male nel suo indagare senza pietà, senza scuse, senza indulgenza e ci trascina in un vortice di perdita e ossessione tramutandoci nella donna che si muove tra le macerie di un qualcosa che rimane ancora e ancora e ancora. Ogni gesto, ogni parola trattenuta o pronunciata troppo tardi, ogni silenzio vengono dissezionati sotto la lente impietosa della memoria nel tentativo di comprendere una distanza irreparabile. Materiali resistenti non è solo la storia di un’assenza: è la storia del dopo, di come il cuore, gli organi si adattano alle loro stesse fratture, di come il vuoto diventi un’abitudine che ci mastica da dentro.

«Ci si innamora da sconosciuti, ci si lascia tra conosciuti», inizia così il romanzo. Questa la prima frase pronunciata da Quintana che ci parla da dentro un corpo che non sente più suo, da una casa a cui non è mai appartenuta, dal pensiero di un ex che non vuole smettere di esistere nella sua mente. Eccola, la lucidità presagio di ossessione per lui, per Mauro, per lui che ha già un’altra, per lui che racconta sui social un’altra storia, per lui che è impossibile smettere di controllare, cercare, immaginare. Quintana rimane in bilico tra questo abisso e quello della morte di Agata, che le lascia un’eredità inattesa, sicuramente insperata, due case e un kit di sopravvivenza: mentre tutto si sta sgretolando, il suggerimento di un modo per resistere, per rimanere, per sopravvivere. Ma sopravvivere non è vivere. E Quintana, sempre vittima di una dolorosa lucidità, lo sa.

«Si scambia la novità per amore, all’inizio. Tu credi che abbia visto in te qualcosa di unico e speciale, e invece è solo che sembri nuova»: in queste parole la sintesi perfetta di un’ossessione che non riguarda solo Mauro, ma il bisogno disperato di sentirsi viva, ancora. Perché l’amore non è solo la presenza dell’altro, ma il senso che ci lascia addosso quando se ne va. Le citazioni in esergo, da L’isola di Arturo (Einaudi, 1957) di Elsa Morante a L’invenzione della solitudine (Einaudi, 2010) di Paul Auster, ci spiegano già tutto: Esposito costruisce un ponte tra la propria narrazione e una riflessione più ampia sulla memoria e sulla solitudine. Gli oggetti diventano fantasmi («Ho imparato che niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto») e la casa di Agata, piena di tracce del passato, diventa lo specchio della mente di Quintana, un luogo dove il presente fatica a imporsi. I ricordi sono più vivi della realtà, più forti del presente che scivola via senza lasciare segni.

Il realismo di Esposito è crudo e struggente, lo stile frammentario, diretto, a volte lapidario: riflessioni aforistiche si alternano a dialoghi serrati e a momenti di puro flusso di coscienza. Il tono, cinico e disincantato, mi ricorda il miglior Paolo Nori, ma con la malinconia esistenziale di Claudia Durastanti. Milano – quale migliore città per la rappresentazione della crisi – non è solo sfondo: il palcoscenico perfetto, tra demolizioni, transenne e battaglie ideologiche tanto più essenziali quanto più inutili («Hanno scavato lungo metà del marciapiede, transennato la zona attorno, occupato il controviale, deviato il traffico e chiuso la stradina qui sotto»: il caos urbano rispecchia il disordine interiore) è entità e personaggio secondario, ma vero, verissimo e (non) respira e si trasforma e si frattura assieme alla protagonista. Come ne Gli indifferenti (Edizioni Alpes, 1929) di Moravia, dove Roma diventa il simbolo di un decadimento morale e affettivo, così Milano in Materiali resistenti rappresenta il caos emotivo della protagonista, una città che cambia troppo velocemente per lasciare spazio alla memoria, ma troppo lentamente per permettere di dimenticare. Questa rappresentazione è persistenza ulteriore del modo in cui la città è descritta, nel catturarne l’alienazione esistenziale, nella narrazione saggistica e narrativa contemporanea: una città che non accoglie, che impone il movimento continuo senza offrire un rifugio, un labirinto di spot progresso e illusioni, soprattutto, di promesse mai mantenute.

Materiali resistenti non è per chi è alla ricerca di una consolazione, non offre risposte facili e non risana le ferite: è un romanzo che parla di perdita, ma anche di resistenza, di quella capacità tutta umana di andare avanti anche quando ogni cosa sembra franare. Esposito, che già in La forma minima della felicità (Baldini+Castoldi, 2015) aveva esplorato il disagio e la precarietà emotiva, costruisce un’opera più matura, che sfiora il realismo magico urbano senza mai perdere la concretezza del dolore. Un romanzo che lascia il lettore con un senso di vertigine, con un nodo alla gola, con il bisogno disperato di tornare indietro, di aggrapparsi a un volto, a una voce, a una carezza che ormai esiste solo nei pensieri.

Materiali resistenti non è solo una lettura: è un viaggio dentro la ferita che tutti, prima o poi, ci portiamo dentro. Ed è bello sentirsi meno soli.

 

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Autore

i.padovan@minima.it

Ilaria Padovan nasce a Pavia nel 1990 e lavora in consulenza a Milano. Suoi racconti sono comparsi su «Topsy Kretts», «Crunched», «Risme», «Turchese», «Grado Zero», «Yanez»., «Pastrengo», «Wertheimer», «Gelo». Si è classificata terza a «8x8, si sente la voce 2024». Ha tradotto dall’inglese per «Turchese». Collabora con Treccani, Il Tascabile, The Vision e Limina.

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