È la totale assenza di rabbia a colpirmi forse più di ogni altro aspetto in Niente di vero, il libro definitivo di Veronica Raimo. Perché quando si scende così in profondità nell’osservare il proprio modo di essere e il modo di essere delle persone che ci sono più vicine – i genitori, i fratelli, i nonni, gli zii – si effettua uno sventramento, un’operazione letteraria e analitica necessariamente viscerale. E non è detto che le viscere, scrivendone, ci facciano effetto, ci scuotano e ci feriscano, benché l’evidenza del disagio ci abbia forgiato, abbia caratterizzato larga parte della nostra vita.

Veronica Raimo racconta di sé, dei suoi vissuti, con uno sguardo vergine, privo di qualsiasi giudizio, sospendendo il bisogno di credibilità. Verika non vuole essere creduta, non ha bisogno di essere creduta. Vuole essere vista e trovare uno spazio che sia suo, al di fuori della famiglia e di una casa inframmezzata da muri posticci e occupata da Radio 3. Desidera essere vista innanzitutto dal fratello, come quando da piccoli si tenevano la mano nel sonno, ma non ha bisogno che il lettore le riconosca un valore. La puoi chiamare Oca o «Troia», se vuoi, e ne sarà felice. Non cerca compiacimento Raimo, non desidera stringere un patto di solidarietà con il lettore, ma osservare tra le pieghe del proprio arrendersi e rimetterle ai nostri occhi, con una timidezza pari alla sua, con invenzione, con una vergogna gentile, e ancora una volta definitiva: «Mi scusi signore, le dispiacerebbe togliersi dal cazzo».

Niente di vero è una dichiarazione di resa. Rassegnazione e rabbia non vanno d’accordo. Non esiste l’una in presenza dell’altra. Per questo forse Veronica soffre di insonnia e di stitichezza, i suoi ambiti di sublimazione della rabbia. L’ossessività della madre ci fa ridere, l’ipocondria del padre ci fa sorridere – «siamo arrivati al paradosso» – ripeteva il genitore. Ed è su questo paradosso che Raimo costruisce un libro accuratamente in bilico tra la commedia e la tragedia, sul bisogno di aggiustare il padre e la volontà di fregare la madre; non essendosi potuta riconoscere in nessuno di loro, ha imparato a usare un’altra lingua, un antidoto, per comunicare.

Niente di vero è un affare di famiglia, c’entra pochissimo con il lettore, anche se c’entra naturalmente. C’entra nella misura in cui il cinismo non è vero cinismo e ti assesterà un colpo al cuore dei più frastornanti se nella lettura mostrerai più interesse a indagare il tono che il fatto in sé. Il memoir di Raimo è anche questo: una dissertazione sull’evidenza, un’elaborazione stonata, dissociata, mai dichiarata e in fondo consapevole. Questo ci fa sentire l’autrice (e la protagonista) vicina, un’amica, una compagna di viaggio. Si può essere le pecore nere di una famiglia e avere una lucidità smisurata per capire che i veri strambi sono gli altri, poco importa se poi a capitolare sei tu.

Niente di vero è anche un libro che ti tiene incollato a ogni sua pagina pur non inscenando conflitto. Ci sono fughe confuse, furti allo scopo di sedare, colpi subiti e poi elaborati con logica, azioni realizzate come pensieri magici, altre con fermezza. Ci sono perdite che hanno un peso specifico; tutto passa eppure tutto resta, e necessita di un posto e di un modo con cui depositarsi, come se fosse un gioco pirotecnico da riporre infine nel suo cesto.

L’amore si realizza laddove c’è parità (anche in termini di altezza fisica). Penso soprattutto alla competizione piena di amore con Christian, il fratello, l’unico familiare capace di suscitare nella protagonista una reazione, assieme al nonno.

Se l’esercizio di constatazione potesse gridare, sussurrerebbe «Niente di vero». Qui tutta la remissività infausta e gloriosa di questo memoir. Perché quando il proprio sentire si avvera con un ritardo conclamato trova un canale insolito di espressione, una forma fedele e infedele, fedele e controversa, un’armonia satura eppure effimera, velleitaria eppure sostanziale, dolorosa seppur comica. Ecco un libro di una bellezza atipica e apatica, aliena, che chiama a sé l’urgenza della rinuncia quale atto sommessamente sovversivo, ecco un romanzo luminoso, come qualsiasi essere umano di per sé imperfetto, e per questo, più che mai, vero.

 

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1 commento

  1. Confesso che a me “Niente di vero” non è piaciuto molto, comunque la sua qualità non mi sembra tale da giustificare il successo ottenuto. Per cui non condivido il giudizio di “un libro di bellezza atipica e apatica, aliena, che richiama a sé l’urgenza della rinuncia”, contenuto nell’articolo di A. Conti. Raimo descrive il vuoto pneumatico del nostro tempo (e per la verità, in serie storica, quello di qualche decennio fa) privo di senso, orbo di futuro e ricco solo di Nulla e della falsa mitologia che la famiglia, così come la conosciamo, sia un portato della Natura (“Non dire mai di una cosa che è naturale”, tuonerebbe Brecht). Lo fa definendo una planimetria dell’esistenza, della sua come archetipo delle nostre, in scala 1:1 – come la carta geografica del racconto di Borges – fornendo un fiume di dettagli e in molti casi non riuscendo a porre in rilievo i pochi essenziali, utilizzando la linearità di un linguaggio smozzicato, secco, afono: insomma, si impiega il nulla per raffigurare il Nulla. Rappresentazione e cosa in sé, per dirla con Kant, tendono a coincidere; questo essendo il metodo della scienza: fedeltà, ragionamento deduttivo, principio di non contraddizione.
    Ma il romanzo non è un saggio, non dovrebbe esserlo, almeno come principio: se voglio parlare del labirinto esistenzialista privo di trascendenza punterò piuttosto il mirino all’opposto, sull’istruzioni sulla vita (Perec), se traguardo l’assurdità della guerra descriverò la razionalità presunta del comma 22 (Heller), e così all’infinito, in un gioco di specchi, d’opposti; insomma la letteratura, in generale, non ha a che fare con la cosa in sé ma con quella altro da sé che, nella finzione letteraria, ne dà conto, la spiega, n’esorcizza l’arcano. Tornando sul linguaggio: la Raimo usa quello lineare con sintesi disgiuntive (o di qua o di là, vale il principio di non contraddizione) parlando in tal modo alla nostra componente razionale, mi rimane il dubbio che un linguaggio più labirintico, onirico, rivolto all’inconscio, con sintesi congiuntive (sia di qua che di là, come espresso nell’ “Anti-Edipo” di Deleuze e Guattari), avrebbe descritto meglio il nulla nullificato dove nuotano (affogano?) i personaggi.
    Insomma, il metodo della Raimo è solo apparentemente nuovo, in realtà è molto datato – ciò non necessariamente per molti sarà una pecca – e può essere considerato di diritto nel solco del realismo (mimesis), si basa sul metodo che, se rammento bene, Calvino descrive come quello utilizzato, per esempio, dalla letteratura russa, anche se non necessariamente il miglior modo per far emergere il Nulla quando è essenza del Tutto: costruire una rappresentazione fedele del reale, picchiarci sopra le nocche e far sentire il Vuoto. Avrei preferito fosse stato mostrato con una metafora, per esempio mettendo gli uomini a camminare a testa in giù, ma tant’è…

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Autore

antoniaconti@minimaetmoralia.it

Antonia Conti è nata a Livorno nel 1980. Si è laureata in Storia e critica del cinema all’Università di Pisa con una tesi sull’adattamento cinematografico di opere letterarie. Dal 2010 vive a Roma, dove lavora in ambito editoriale.

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