
Einen Weiser seh’ ich stehen
unverrückt vor meinem Blick;
eine Strasse muss ich gehen,
die noch keiner ging zurück[1]
Wilhelm Müller – Die Winterreise, 20
Gradi della disperazione: non ricordarsi di nulla,
ricordare qualcosa, ricordare tutto[2]
Elias Canetti, La tortura delle mosche
Antonio Deltito è uno psichiatra quarantenne. Una sera, a casa di amici, durante una festa, comincia a dimenticare. L’allarme, che i convitati cercano di non esacerbare, viene dal fatto che l’uomo sembra non ricordare un evento accaduto pochi minuti prima a un collega, e di cui tutti sono stati testimoni.
È un evento minimo che però fa da capofila di una serie, via via più frequente, di accadimenti che mettono in discussione la salute mentale dell’uomo; a raccontarci l’evoluzione e il decorso della sua storia clinica c’è un narratore anonimo, anche lui psichiatra, amico e coetaneo di Deltito, che scrive a trent’anni di distanza, integrando quei fatti con altri personali, incentrati prevalentemente sulle indagini attorno a questo strano male che sembra affliggere il collega e amico e che non compare in alcun manuale di psichiatria: la sindrome di Ræbenson. La quale è ad un tempo: invenzione dell’autore Quaranta; oggetto di studio del narratore anonimo, che ne diverrà negli anni il massimo esperto; afflizione (autodiagnosticata) di Deltito, a sua volta contemporaneamente personaggio del romanzo, delle proprie annotazioni e dei resoconti del narratore. Un romanzo insomma decisamente stratificato e interconnesso, che stimola nel lettore il godimento di andare in profondità tra le righe e le pagine, grazie a rimandi interni, circolarità, echi, indizi disseminati ovunque.
Al centro del congegno narrativo assemblato da Giuseppe Quaranta, al suo esordio editoriale, c’è la posizione dell’uomo nella linea del tempo o, detto altrimenti, il modo in cui l’uomo, nello striminzito attimo presente che vive, reagisce alle nuove pressioni a cui l’epoca contemporanea lo sottopone – aumentando a dismisura il peso del passato, che grava di cose e dati che non possono più essere lasciati andare perché, immagazzinati, sempre ritornano o possono ritornare –, e delineando il futuro sempre meno come la risultante di una somma di scelte e azioni e sempre più come il resto di un puro calcolo statistico.
L’uomo è probabilmente l’unica specie ad avere salienza della mortalità, cioè a essere in grado di concepire e riconoscere l’inevitabilità della propria morte[3]; una sapienza che maturiamo ad una certa età e che più non ci abbandona, e che mette ad un tempo l’animo in pace (tocca a tutti, toccherà anche a me), e l’animo in subbuglio (ma perché deve toccare a tutti? E perché anche a me?). Cosa succederebbe, si chiede Quaranta, se per qualcuno non fosse più così? Cosa, se una inaudita malattia arrivasse a sparigliare le carte per qualcuno dicendo tu, caro mio, grazie a me non morirai di morte naturale, mai? La risposta è che non ci sarebbe niente di buono nel sapersi, tutto a un tratto, immortali.
Chiedete ai coralli, per farvene un’idea, che vivono forse migliaia di anni e che, si dice nel testo, si candidano a essere gli animali più malinconici del pianeta. Più si vive più la coscienza si fa amara.
Ancora di più per Deltito e i malati come lui, ai quali la sindrome porta in dote, oltre all’immortalità, crisi di panico, attacchi epilettici, svenimenti, paramnesie. Soprattutto amnesie.
Qui entriamo nel vivo. La memoria è uno strumento niente male per vivere. Ci fornisce una sorta di archivio e di cassetto degli attrezzi per affrontare giorno dopo giorno le cose della vita. E questo, unito alla coscienza esplicita del tempo (c’è oggi, ma so che ci sarà domani, e che poi ci sarà un giorno ancora e poi un altro, e così via, per giorni che fanno mesi, che fanno anni e secoli), ci mette nelle condizioni di progettare il futuro. Mica come le bestie, direbbe Nietzsche, con invidia.
Se questo futuro si dilata senza limiti e insieme svaniscono le orme lasciate dai nostri passi già calcati, ne viene la disperazione di cui parla il libro.
Al tramonto del IV secolo, Agostino scriveva e licenziava Le confessioni, opera nella quale l’autore, attraverso la trasfigurazione universale della propria esperienza singola, ragionava con acume e umanità su temi quali l’anima, il peccato, il tempo. Nel libro XVI il filosofo affronta il tema della memoria.
Chi ricorda sono io, lo spirito. Non è così strano che sia lungi da me tutto ciò che non sono io; ma c’è nulla più vicino a me di me stesso? Ed ecco che invece non posso comprendere la natura della mia memoria, mentre senza di quella non potrei nominare neppure me stesso[4].
Così è: la memoria, inconoscibile, serve a conoscere chi siamo, come singoli e come specie; nel romanzo di Quaranta, le confessioni di Deltito e del narratore, fanno muovere l’indagine dall’unde Malum di Agostino all’unde ego.
Da sempre noi siamo anche i racconti degli altri, che interiorizziamo come nostri ricordi. Così, ogni volta che raccontiamo qalcosa che ricordiamo, in realtà operiamo narrativamente modificando la narrazione e anche il contenuto stesso del ricordo. Siamo inclini a fantasticare, da sempre, e a definirci attraverso quell’attività continuamente narrativa che è il ricordo.
Ma Giuseppe Quaranta, psichiatra e avido lettore, parlando di una malattia che non esiste, adombra qualcosa di diverso, che sta apparendo e con cui dovremmo presto – e se non noi, gli immediati dopo di noi – fare i conti: l’estensione della nostra memoria tra le cose del mondo, il ricorrere a vari e molteplici strumenti elettronici di immagazzinamento dei ricordi, nell’attesa che si avveri la profezia (il sogno) ultima e terrifica per cui ogni singolo momento della nostra giornata sarà registrato e reso disponibile, accessibile all’interrogazione e, in definitiva, alla verifica puntuale di quello che siamo legittimati a dire di noi.
Quando Borges inventò Funes el memorioso, era il 1942, immaginò un personaggio che, a causa di un trauma fisico, recupera la memoria e la facoltà di ricordare tutto:
Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da quando il mondo è mondo[5].
La condanna di Funes (di chiunque ricordi troppo) è l’incapacità di farci qualcosa con questi contenuti potenzialmente infiniti; la condanna è la sconfitta dell’immaginazione, della creazione, l’intelligenza e lo svelamento della trama che lega i fatti. Pensare, come dice sempre il narratore di Borges, significa dimenticare e astrarre, non rimanere preda dei dettagli immediati[6]. È una dialettica costante tra le tre estasi che sempre Agostino sintetizzava splendidamente come declinazioni dell’attimo presente.
Nel romanzo questa dialettica è attiva sia diegeticamente che nella forma del raccontare: come il narratore anonimo indaga (presente) per ricostruire la storia di Deltito (passato) e definire i contorni della sindrome (futuro), così Quaranta scrive un libro oggi che rielabora linguisticamente e narrativamente la tradizione (in particolare la narrativa breve di Poe, Maupassant, Conan Doyle) e insieme punta tematicamente al futuro (più che prossimo, come detto), non costruendo scenari distopici o fantascientifici, ma interrogandosi, attraverso l’invenzione pura e semplice, sugli sviluppi ai quali siamo aperti anche come inventori di storie.
In questo senso quello di Quaranta è, in un’epoca dominata dalla semplificazione e dal riduzionismo, un romanzo della complessità come forma umana da recuperare; si fa tanta discussione attorno alla Intelligenza Artificiale, troppo spesso in modo irrelato e non documentato, alla sua dipendenza dai dati immessi, e ai pericoli di allucinazioni e pregiudizi da ciò derivanti; ma il passato, la tradizione, il bagaglio, insomma: la memoria di ciò che siamo, è la cattedrale del (nostro particolare ma anche nostro di specie) sapere ed è ciò che ci rende umani. Sta a noi non considerarlo come semplice insieme di dati (e per questo dunque riducibile un pacchetto scambiabile, vendibile, condivisibile, cancellabile), ma ancora come alfabeto di quell’oracolo continuo in cui, in ultima analisi, si raddensa il nostro vivere proiettato nel futuro. A termine.
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Intervista a Giuseppe Quaranta, di Alberto Trentin
La sindrome di Raebenson è il tuo romanzo d’esordio. Da dove arriva l’idea principale?
Più che da un’idea, in principio è stata un’immagine, quella di due gemelli con dei crani un po’ allungati, attorno a cui sono andate a coagularsi delle idee, prima fra tutte quella di immortalità. Questo tema non è nuovo nella letteratura, penso a Bernard Shaw e al suo Back to Matusalem, in cui all’improvviso compare una generazione di immortali… ovviamente devono nascondersi o non essere notati, perché rischierebbero di essere perseguitati. Shaw diceva che in occidente non ci sono adulti, ma che si muore a novant’anni con un bastone di golf in mano, cioè bambini. Nel mio libro l’immortalità è un dono che diventa però una sorta di disgrazia per chi ce l’ha. Ho iniziato a riflettere su questo.
Il romanzo ha per protagonista uno psichiatra. Per deuteragonista, che è anche voce narrante, un altro psichiatra. Tu di professione sei psichiatra. Come ti sei trovato a maneggiare in modo e per fini narrativi la materia quotidiana di lavoro, cioè la tua realtà, dato il particolare contesto nel quale operi.
È stato molto naturale occuparmi delle cose per me più familiari. Poi cercavo un protagonista che svolgesse un mestiere investigativo, come alcuni personaggi hitchcockiani (penso al fotoreporter de Rearwindow, ad esempio), e lo psichiatra è un mestiere inquisitivo, fa diagnosi per inferenza. Mi sembrava perfetto. Poi gli psichiatri sono un po’ bistrattati in letteratura, compaiono ma sono figure asettiche, che non si sporcano troppo le mani con la realtà, penso allo psichiatra di Alex Portnoy di Roth. Grava sugli psichiatri della letteratura il tabù freudiano: nessun coinvolgimento. Ma la vita, si sa, è tutta un giro di transfert e controtransfert.
In conseguenza di questo, il romanzo si costruisce anche attorno a un immaginario e a un lessico che sono necessariamente specifici. La riflessione sul registro da tenere e sulla lingua da usare è, a mio avviso, uno dei grandi nodi per uno scrittore. Cosa ti ha guidato nel momento della scelta, come sei riuscito a bilanciare le necessità di leggibilità e aderenza?
Non ho pensato al registro lessicale, cioè non in maniera così consapevole, per me era fondamentale invece non rompere un patto con il lettore: la storia che racconto, anche se il frutto di una serie di menzogne, opportunamente e, spero, efficacemente elaborate, deve arrivare dentro il lettore come una forma di verità. È uno scrupolo narrativo. Ogni mezzo per raggiungere questo fine è lecito: lessico, fotografie, paratesti, performance pubbliche, dichiarazioni a mezzo stampa! Sono stato tentato di aprire una pagina Wikipedia intitolata Ræbenson syndrome.
In gioco c’è una riflessione (che è contemporaneamente una messa in scena e un gioco metaletterario) sul concetto di identità. Sempre di più nella nostra epoca, con la diffusione e il perfezionamento degli strumenti informatici, l’Io si consolida grazie a estensioni esterne di memoria. Quello che accade al tuo protagonista, può forse essere un destino comune? Siamo sempre più diretti a qualcuno (o qualcosa) che (ci) ricorda per noi?
Stiamo delegando la nostra memoria agli hard-disk. È già in atto nel mondo digitale una grande sindrome ræbensoniana, una spossessione dei nostri ricordi, un’archiviazione fasulla delle nostre memorie: non possiamo prevedere cosa ne sarà delle nostre povere identità. Nulla di buono, sicuramente.
Come ti rapporti con la letteratura? Sei un avido lettore? E quali sono gli autori che hai avuto come riferimento principale nella elaborazione e nella stesura del tuo romanzo?
Un libro che penso mi abbia influenzato durante la scrittura è “La vera vita di Sebastian Knight” di Nabokov. Ma avevo in mente anche il racconto di Borges, “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”. C’è, come direbbe il maestro argentino, il suo “remoto influsso”.
[1] Vedo un segnale levarsi / immobile davanti ai miei occhi / devo percorrere una strada / dalla quale nessuno ritorna.
[2] Trad. it. di Renata Colorni
[3] Justin Griegg, Se Nietzsche fosse un narvalo, trad. it. di Teresa Albanese, Aboca edizioni, Arezzo, 2023
[4] Agostino, Le confessioni, trad. it. di Carlo Carena, Mondadori, Milano, 1984, p. 267
[5] Jorge Luis Borges, Finzioni, trad. it. di Antonio Melis, Adelphi, Milano, 2003, p. 101
[6] Ibid., p. 103
Alberto Trentin è nato a Treviso. Ha pubblicato varie raccolte di poesia. L’ultima si intitola Gli attimi attigui (Digressioni, Udine 2022). Scrive per Minima&moralia e Finnegans. Dirige la scuola di scrittura ri-creativa Alba Pratalia con Paolo Malaguti. il suo blog Epicentri – Conversazioni sulla Letteratura è al seguente indirizzo: www.albertotrentin.it