«La valigia pesava come se ci fossero dei libri, o del piombo, o un morto dentro».

Intanto l’ombra cos’è? Il doppio sfumato di uno e di tanti, un riflesso oscuro, un occhio del nostro corpo che si sporge in avanti, un altro che – con la luce che cambia – ci segue da dietro e forse ci spinge. L’ombra di chi è scomparso per non tornare più, di chi è morto, di chi sta dietro una tenda e osserva gli altri, l’ombra che il sole genera sempre alla stessa ora sul muro di una casa. Case i cui abitanti non aprono mai le imposte, non escono, non parlano, giacciono su vecchie sedie in stanze polverose. Ombre fatte di parole sfumate che escono da tante bocche, e di porta in porta, raccontano storie mai false, mai vere, ogni ombra aggiunge un dettaglio, ogni ombra è certa della sua versione. Ogni ombra è un’ombra.

Tutte queste ombre insieme formano piccole o grandi comunità, da piccoli posti partono e non tornano più, oppure ritornano dopo molti decenni. Altre ombre sconosciute che scendono da un treno, attraversano un luogo, lasciano un segno, una traccia, spariscono o muoiono ma nessuno le dimentica. Ombre piene di dettagli, come un coro misterioso sfilano una dietro l’altra, formano un corteo che è una infilata di microstorie in un unico grande racconto – passo dopo passo, da finestre chiusa a finestra aperta, da amore tumultuoso a omicidio – che si disegna in un luogo che non c’è ma che potrebbe esserci, una frontiera tracciata da qualche parte in Galizia, che si realizza in un linguaggio che rimbalza dal narratore principale (che sa mettersi in ombra) a tante piccole altre voci che – come accade in tutti i paesi, da che mondo e mondo – dicono una parte della storia.

Tutto normale? No, tutto straordinario perché tutto ciò accade in Corteo di ombre di Julián Ríos, tradotto da Bruno Arpaia e pubblicato per la prima volta in Italia da Safarà in questo autunno.

Un lungo corridoio separava la cucina dalla camera da letto in cui doña Sacramento si rinchiudeva per evocare le ombre. Era il suo santuario.

Ríos è uno dei maggiori scrittori spagnoli del Novecento, tra i più interessanti, di certo un innovatore di linguaggio e dotato di una grande forza immaginativa, talento – quest’ultimo – che lo avvicina per certi versi ad alcuni scrittori sudamericani. In particolare, specialmente per quello che riguarda il narratore che sparisce o si dissolve, fa pensare a Onetti. E a Juan Carlos Onetti pensiamo anche quando cominciamo a leggere i racconti che formano il romanzo di Tamoga (questo è il sottotitolo del libro) perché associamo immediatamente l’incanto delle voci senza nome che raccontano per frammenti le vicende dei personaggi principali – procedendo anche per salti temporali e di scenario – al miracolo del coro che si dispiega negli Addii di Onetti (Sur, 2022, traduzione di Dario Puccini).

I vecchi ricordi lo andavano inzuppando come una pioggerellina tenace.

L’origine di questo romanzo in racconti è molto lunga, la racconta l’autore stesso nella bella introduzione al testo. Il libro è stato scritto tra il 1966 e il 1968, con l’idea di ricreare una sorta di Galizia privata, con le ombre del passato tra nostalgia e spettri. Al tempo la Spagna era sotto il regime franchista e, per questo motivo, Ríos – che nel frattempo era andato a vivere a Londra – decise di non mandare il manoscritto ad alcun editore, certo che la censura lo avrebbe in qualche maniera castrato. Il libro è rimasto accantonato fino al 2007 quando lo scrittore galiziano ci ha rimesso mano ed è stato pubblicato nel 2008, oggi quindici anni dopo (ancora) è finalmente a nostra disposizione ed è una fortuna, una bellezza.

In quell’istante gli crollò di colpo la convinzione che i morti potessero risvegliarsi grazie alla nostalgia e alla disperazione e alla forza del desiderio dei vivi.

Tamoga è un posto inventato, come dicevamo, sta da qualche parte in Galizia, vicino all’Oceano e non troppo distante dalla frontiera con il Portogallo, qui hanno luogo le nove storie del libro, che – come scrive Ríos stesso – possono anche essere lette in maniera slegata ma che sono regioni di un’unica mappa letteraria. Uno solo è il posto, una sola è la comunità, uno solo è il corteo di ombre che si muove e che muove le storie, uno solo è il linguaggio, vivo e sperimentale di chi ha scritto.

Ed ecco le storie. Un uomo scende da un treno alla stazione di Tamoga, è uno sconosciuto, starà poco nella città, eppure è incredibile il numero di persone che pare essere entrata in contatto con lui. Tutti lo hanno visto andare da qui a lì, gli hanno parlato, sanno il perché della scelta dell’albergo, di tale ristorante. Chi è chi non è, chi aspetta, se scappa da qualcosa, se intende scappare. L’uomo non dice, gli altri dicono per lui. Tamoga è il narratore. Una vedova dalla morte del marito non esce più di casa, addirittura non si muove da una stanza, non vuole più nessuno, non sostituisce la domestica quando muore. Guarda le fotografie di suo marito, le tocca, le sposta, nient’altro, perché? Un fratello e una sorella che vivono insieme e poi vengono travolti e separati dall’arrivo di un amore, di un futuro diverso. Un uomo e una donna di colpo spariscono. Un farmacista si riduce in silenzio con tutti per vent’anni. Un sarto muore per via di un gioco inventato da ragazzi ubriachi. Un medico nasconde un segreto di cui dovrà dar conto. Tutti in fondo nascondono un segreto, la narrativa non svela ma ci fornisce gli elementi per dire la nostra, per aggiungere la nostra ombra al corteo.

La maestria di Ríos è di unire con un filo sottile ogni brandello di storia, ogni personaggio e muoverli alla ricerca di ciò che hanno perduto, che non hanno mai smesso di cercare. La traduzione di Arpaia rende al meglio il tono dell’autore e la sua straordinaria grammatica. La letteratura è un territorio vasto non accontentiamoci mai di leggerne soltanto un pezzo.

 

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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