
«Ciò che accade alle 9.02 del 16 marzo 1978 continua ad accadere. Accade però nel reame dell’incantesimo. […] Perché dentro a un incantesimo il tempo non esiste allo stesso modo in cui lo intendiamo fuori dall’incantesimo».
Una scena, forse la prima di cui ho memoria – di cui il ricordo è davvero mio e non rielaborato dal racconto che ne hanno fatto i miei genitori, gli adulti in generale – il custode della scuola elementare in cui andavo entrò in classe avvicinandosi alla maestra. Le disse una frase, quasi sussurrata all’orecchio, ma non abbastanza, chi di noi stava ai primi banchi poté sentirla chiaramente. Il custode si chiamava Tonino, la maestra si chiamava Onorina, era della Basilicata, era la moglie del nostro medico di famiglia. Quando Tonino smise di parlare, Onorina si prese la testa tra le mani e cominciò a scuoterla prima lentamente e poi con più forza, diceva dei no e qualcos’altro che non riuscivamo a capire, forse piangeva. La frase che aveva detto Tonino era questa: «Hanno rapito Moro». Di Aldo Moro forse avevamo sentito parlare, ma non sapevamo chi fosse, forse non sapevamo bene nemmeno cosa significasse rapimento. Abbiamo sentito, però, scivolare tra i banchi qualcosa, una sorte di corrente che passando dalla voce di Tonino e dalla reazione di Onorina ci aveva raggiunti. Era il 16 marzo del 1978, stava cambiando la storia del paese, lo scenario che stava per aprirsi davanti a noi somigliava a un buco neroma non lo sapevamo.
Ricordo, e questo già meno bene, che ci fecero uscire prima da scuola (o forse mi sbaglio e ci mandarono a casa prima 55 giorni dopo). Stavo per compiere 7 anni, quel giorno persero la vita i cinque agenti della scorta di Moro, l’agguato fu teso dalle Brigate Rosse, avvenne a Roma in via Fani, nome di via che nessuno ha mai più scordato. Andrea Pomella ne aveva un paio in meno, vive non troppo distante da via Fani, è uno scrittore molto bravo, ha preso una porzione di tempo di quella giornata infinita – tre minuti, il tempo dell’attacco del comando BR – e l’ha dilatata il più possibile per guardarci dentro, meglio, per osservare i dettagli fino a farli esplodere di verità, che è diversa da quella storica (della quale tra l’altro ancora ci sfugge qualcosa) ma è letteraria, emozionale. Un vero sul quale i nostri occhi continuano a poggiarsi senza riuscire a chiudersi, perché ci pare che ci sia sempre qualcosa che manchi, un punto, uno squarcio che riguarda la commozione (forse) e una certa precarietà che attraversa noi abitanti di questo paese (più del paese stesso) e più in particolare chi in quegli anni Settanta ci è nato. Siamo figli di molta buona musica, di centravanti che portavano i capelli lunghi e di tutto il piombo sparato in quegli anni, condensato in giorni, compresso in ore, raccolto in tre minuti, tre soltanto. Il passo che compie Andrea Pomella per uscire dall’ombra ci porta a via Fani e sta dentro a un bellissimo romanzo Il dio disarmato, uscito per Einaudi da qualche settimana.
Tutto ciò che esiste e che noi definiamo realtà è tale perché osservabile. […] Ciò che non esiste è ciò che ci è nascosto e che non può essere osservato.
Sul rapimento di Aldo Moro, sulla strage, sui covi delle Br, sui segreti, sull’omicidio e ritrovamento del corpo in via Caetani (il 9 maggio 1978) – anche l’immagine del corpo rannicchiato nel baule non l’abbiamo mai più scordata – esiste un’opera storica, documentaristica approfondita, ricca e consistente. Le sfumature invece le può cogliere solo la letteratura, solo l’indagine narrativa riesce a portare alla luce quell’altra verità, quella che serve alle persone per tenersi in equilibrio, per non precipitare. Di questo si occupa Andrea Pomella, di ciò che, tra le altre cose, lo porta a scrivere questo libro. Alla base c’è una semplice domanda, non nuova per carità ma ancora importante: un fatto storico è anche un fatto letterario? E a seguire: la parte d’invenzione può far luce sulla cronaca, tra gli archivi? La risposta a entrambe le domande è sì.
Temere qualcosa ed essere convinti che stia realmente per accadere: è la differenza che corre tra il presidente e sua figlia. Lui teme che certe cose brutte possano accadere, lei invece è assolutamente convinta che accadranno. E con questo difforme grado di certezza nel cuore che si scambiano l’ultima occhiata della loro vita.
Pomella prende quei tre minuti e riavvolge il loro nastro più volte, tante volte, e in ognuna il punto di vista cambia. Una volta sono i tre minuti di un testimone, quella dopo di una signora; i tre minuti di uno fermo a un incrocio poco distante; i tre minuti della primavera alle porte e che non arriva, Niente più primavera, scriveva Raboni: i tre minuti dei brigatisti; i tre minuti di un’edicola, di un bar; i tre minuti delle strisce pedonali; i tre minuti degli agenti di scorta; i tre minuti dei tre figli di Moro; i tre di sua moglie, di suo nipote; i tre minuti di chi spara; i tre di chi muore; i tre minuti di Pomella per ogni volta che torna sul posto; i tre minuti della chiesa in cui Aldo Moro sceglie di pregare quella mattina; i tre minuti di Aldo Moro, politico italiano, nato a Maglie, rapito e morto a Roma; i tre minuti di noi che leggiamo.
E poi Pomella con grande sensibilità e vero talento va alle ore precedenti, le ultime otto di Moro prima del sequestro, per spogliare l’uomo dagli abiti del politico e metterlo tra le mura domestiche. Moro che aspetta fino a tarda notte il figlio che rientri da fuori, Moro che tiene le luci basse, Moro che pensa e ricorda, Moro che a un certo punto va a letto ma che non dorme molto, Moro che si sveglia, Moro che sceglie abito, camicia e cravatta, Moro che si rade, Moro che parla con sua moglie, Moro che scherza con il nipotino, Moro che fa colazione, Moro e le ultime parole scambiate con sua figlia, Moro e le tre borse che porterà, Moro che si prepara a uscire, Moro che pensa, Moro e l’aria che gli circola intorno, Moro e le parole al caposcorta, Moro e un sogno che ha fatto e che continua a sfuggirgli dalla mente, Moro e il destino e il destino degli altri, Moro e una corrente sotterranea che lo accompagna in quelle ore precedenti all’agguato, una sorta di inquietudine e di stanchezza. In quelle otto ore il dio è disarmato, è spoglio, è dritto davanti a una finestra e la luce che avanza è solo quella della notte. Pomella non era con Moro in quelle otto ore, ma noi gli crediamo.
Uno dei passaggi più belli del libro, diventato subito indimenticabile è questo, Moro è in macchina: «Fissa le spalle dei due uomini seduti davanti a lui. C’è una parte del corpo degli individui che lo commuove segretamente, è quella in corrispondenza della prima vertebra cervicale: Atlas. In quel punto l’attaccatura dei capelli fronteggia il vuoto sottostante del collo, che si affaccia come una radura. […] È una parte cieca del nostro corpo, non possiamo guardarla se non attraverso l’aiuto di uno specchio. Al contempo è esposta allo sguardo di chi segue, è il cuore della nostra vulnerabilità». Pomella riesce a mettercela davanti agli occhi quella vulnerabilità, con gli occhi di Moro vediamo il nostro punto debole, il nostro segreto fragile, sta lì nelle nuche, nei colli, di due uomini che stanno per morire, in quella dell’uomo che li osserva e che sta per essere rapito e che non può vedere la sua. Mentre leggiamo proviamo il desiderio di guardarci alle spalle, temiamo per il vuoto del nostro collo, per la nostra prima vertebra cervicale. La letteratura può farci sentire nudi e fragili come nell’istante prima di morire.
Ogni volta che Agnese Moro incontra gli assassini di suo padre e dei cinque uomini della scorta pone loro la stessa domanda: “Come avete potuto mettere la sveglia, dormire, alzarvi, per andare a uccidere?”.
Il dio disarmato è colmo di delicatezza e precisione, si intuisce la grande responsabilità che si è assunto l’autore, il suo rispetto per la storia e per i familiari di chi ha perso la vita. Pomella si è preso cura di ogni virgola, di ogni gesto, pare quasi che in quelle otto ore precedenti abbia tentato di tenere tra le mani quelle di Moro. Il romanzo si apre con una mail che Andrea Pomella scrive a Mario Moretti, gli spiega le intenzioni del libro e gli domanda un’intervista, una chiacchierata. La mail parte alle 15.01 di un giorno di gennaio del 2021 e torna indietro alle 15.04. Moretti, tramite un server di posta, diventa un personaggio letterario fatto e finito, uno che parte per fare la rivoluzione e poi diventa uno dei tanti, uno di quelli cui i server sparsi per il pianeta non recapitano i messaggi, un tizio che di conseguenza non risponde alle mail.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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