di Chiara De Nardi

Protagoniste sono le case. Una successione di abitazioni reali o metaforiche, contenitori, involucri, scenografie. Ne Il libro delle case (Andrea Bajani, Feltrinelli 2021) ce n’è un lungo elenco: alcune si manifestano nella disposizione dei metri quadri calpestabili tra le mura portanti; altre si incastonano in uno scenario urbano, con la densità del cemento che si gonfia in mezzo alle strade; altre sprofondano sotto il livello dei marciapiedi o si posano al centro di una bocca spalancata, circondati da una fila di zanne appuntite e innevate e quando si fa notte l’arcata invisibile delle montagne incastonate al contrario si abbassa fino a serrare i denti, fino a spegnere ogni luce. Altre case hanno le ruote e procedono segnando il confine tra un dentro e un fuori che si muovono in senso opposto, alcune sono di carta o di parole, una è un carapace antico come il mondo su cui far risuonare ritmi tribali, una è un cerchietto d’oro con lettere incise sul soffitto che promettono una finzione di eternità.

Sono case che ritrovano i propri contorni sulle mappe catastali tra rettangoli abbozzati, ma sono anche case ideali, luoghi della memoria dai confini traballanti che il tempo eil ricordo hanno reso instabili e imprecisi.

I personaggi, invece, sono comparse, sono funzioni descritte da quegli strappi nello spazio-tempo; per questo non hanno nomi propri ma una parola-definizione, più o meno permanente: Madre, Padre, Nonna, Moglie, Bambina, Donna con la fede al dito, il collettivo Parenti… Le parole-etichette ne fanno piccoli archetipi accidentali dentro una storia che si collega a un unico pronome personale, il protagonista che si chiama Io, uno iato che tiene insieme quell’elenco disordinato di case e attorno a cui gravitano le voci che fanno eco in quei luoghi.

Ma chi dice io è una terza persona che non coincide con il pronome che descrive, è uno scarto, un dislivello straniante, perché l’Io è disseminato negli angoli di oltre quaranta case e da lì viene ricostruito.

Ogni capitolo descrive una casa e vi appoggia accanto il riferimento temporale di un anno; ne viene fuori una sorta di topografia dell’esistenza, o una sociologia dei luoghi, che intendono narrare una vita a partire dalle case che ha abitato.

È la casa che dà forma a chi la abita, che stabilisce relazioni, famiglie, gerarchie, rotture, e se si dovesse disegnare una piantina dell’io, se si decidesse di intraprendere la ricostruzione investigativa di una vita contro l’esercizio disciplinato dell’oblio, gli unici testimoni affidabili sarebbero i muri delle dimore che abbiamo abitato, i quadri, il mobilio, i cassetti in cui abbiamo riposto desideri, segreti, ricordi, solitudini, addii. Ma l’io abita un numero di case molto più ampio di quelle censite nei catasti; “lo spazio abitato trascende sempre lo spazio geometrico” scrive Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio, e le case da visitare per rintracciare i brandelli di un’esistenza nomade, rimasti impigliati negli interstizi, si moltiplicano nell’elenco topografico degli spazi che abbiamo riempito.

Non sono solo le case che racchiudono la famiglia, l’infanzia, le vacanze, l’amicizia, il lavoro, l’amore, i peccati, quindi, a dar forma alla verità che vorremmo intendere quando diciamo “io”, ma tutte le case in cui siamo passati. In alcune si entra formulando una promessa, altre ci si fabbricano intorno attraverso le storie che ascoltiamo, in altre ancora si mette piede attraverso l’immaginazione, ingaggiando su una pagina bianca il proprio corpo a corpo con le parole e in alcune, infine, si entra come falene, attratti nello spazio di luce che cola dal televisore, camminando lungo un corridoio invisibile fin dentro la casa di un altro. Così accade per le abitazioni di Poeta e di Prigioniero, parole-etichette dietro le quali si riconoscono Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro, ma che qui sono soprattutto due lutti, che come tutti nel libro si identificano con quelle case che li contengono e nelle quali, ancora bambino e senza accorgersene, si ritrova anche Io.

Le case sono spesso relazioni, incontri o mancanze, ci sono stanze proibite, appartamenti guardati solo da fuori decifrando il linguaggio cifrato delle finestre semichiuse, e l’omertà discreta delle pareti, dei mobili, dei vuoti. Proprio lì sta il segreto dell’io, anche in una casa svuotata, con i chiodi che ricompaiono dietro i quadri tolti come antenne di lumaca, e quando Io entra in una stanza spogliata “il paesaggio è quello di una crocefissione”, su ogni antenna c’è un biglietto che ha la sua grafia, ogni chiodo ha trapassato le parole-sentinella che per anni lui lasciava su foglietti a guardia della casa, mentre Moglie dormiva, promesse, dichiarazioni, scuse, tutte parole infilzate, morte: “le pareti – questo è quel che vede Io entrando – sono un’ostensione di rettangoli di carta, farfalle inchiodate contro i muri. Sono le parole di Io che si dimenano per pura resistenza: l’aria ne solleva appena i lembi, il volo è solo l’agonia di un’intenzione”.

“L’unica possibilità che abbiamo per provare a raccontare davvero chi siamo” dice AndreaBajani presentando il romanzo, “è provare, anche se non lo si può fare, a entrare in tutte le case in cui siamo stati”. Un’operazione impensabile nella realtà, esperibile soltanto attraverso la letteratura, capace di ricomporre nel romanzo i cronotopi essenziali di un’esistenza nel disordine del ricordo.

La ricostruzione del nostro io comincia dunque a partire da tutte le parti che abbiamo lasciato negli spazi che abbiamo vissuto, l’io è ciò che rimane di tutto quello che si è accumulato, meno tutto quello che si è perso per strada; si forma per addizioni e per sottrazioni in un ritratto inevitabilmente frammentario, ricavato soprattutto dagli scarti, nelle intercapedini.

“Si crede talvolta di conoscersi nel tempo e non si conosce che una sequela di fissazioni negli spazi della stabilità dell’essere, di un essere che non vuole passare, che, nello stesso passato, quando va alla ricerca del tempo perduto, vuole «sospendere» il volo del tempo. Lo spazio, nei suoi mille alveoli, racchiude e comprime il tempo: lo spazio serve a questo scopo”, scrive Bachelard, e il romanzo di Bajani tenta qualcosa di simile alla topoanalisi che teorizza il filosofo francese, ma nell’affastellarsi delle case e dei frammenti temporali che stratificano l’identità dell’io, l’io si moltiplica, non è più uno chi dice io, ma una moltitudine che si disperde, un caleidoscopio che solo il gioco prospettico della finzione letteraria può tentare artificiosamente di comporre.

Infatti, come scrive Bajani, dire “io” vuol dire commettere un imbroglio, o, al limite, una grossolana approssimazione. Lo dimostra l’unica casa che nel libro non possiede una data perché è lo spazio grigio della memoria irraggiungibile e raccoglie ciò che l’io ha rimosso senza restituirglielo: “la Casa dei ricordi fuoriusciti è la scatola nera di ciò che non ricorda, contiene quello che persino la memoria ha rifiutato, anche se è successo. Di certo è ciò che consente a Io di dire Io continuamente sapendo di mentire.”

Se ne “La Poetica dello spazio” per Bachelard la casa natale assume le forme di una cripta, e “incide in noi la gerarchia delle diverse funzioni di abitare”, per l’Io raccontato nel romanzo la prima casa è la Casa del sottosuolo, si trova sotto il livello della strada, incastrata tra alti palazzi e nel ricordo di Io è sentore di cantina, il boato del cannone sul colle, che ogni giorno spara a salve su Roma ed è anche la casa-portale per le case di Poeta e Prigioniero ed è la casa di Tartaruga.

Animale totem del libro, raffigurata nell’illustrazione di copertina da Emiliano Ponzi, Tartaruga vive infatti nel cortile della Casa del sottosuolo, ma la sua vera casa è un carapace con un tetto di mosaico lucidato dalla pioggia, è una corazza dura che la contiene. Dentro al libro delle case, Tartaruga è l’unica per cui la casa resta sempre la stessa, sono gli altri a passarle accanto, lei si muove lenta, cammina in mezzo agli uomini come un fossile, come una specie di eternità. Tartaruga e Io stringono un’amicizia che ha il tempo lunghissimo della vita della testuggine, perché se la storia dell’io può essere narrata solo attraverso le case che ha abitato, la tartaruga porta la sua storia incisa in cerchi concentrici sul guscio. Suo è l’orizzonte più lungo del libro, che si spinge al 2048 e lei è il punto fermo, la direttrice che attraversa il tempo senza muoversi; in un insieme di frammenti temporali che si mescolano come schegge impazzite è l’unica verità che sembra sopravvivere alla spietatezza del tempo.

 

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