Tutto quello che vogliamo è qualcuno che ci racconti una storia, se possibile una storia che arrivi da molto lontano, da luoghi sconosciuti e che piano piano hanno riempito il nostro immaginario. Qualcuno che ci racconti una storia di frontiera, di Far West, di pianure, di corse al galoppo, di cavalle, mucche, pascoli, di indiani e Cowboys, di pistole, fucili. Storie selvagge e anche romantiche, di uomini solitari ma anche di ragazzi che coltivavano delle speranze, di donne e uomini che non avevano una lingua in comune ma che cercavano di comunicare. Tutto quello che vogliamo è ritornare nel luogo che avevamo sognato da piccoli, quando ci buttavamo per terra dietro la credenza di una nonna, sotto il nostro lettino in cameretta e sparavamo con una colt 45 immaginaria a un nostro amichetto, a nostro cugino, e una volta eravamo sceriffi, quella dopo banditi, quella dopo ancora eravamo indiani, ed eravamo ribelli, bambini, eravamo felici e a briglie sciolte, proprio come se fossimo a cavallo, facevamo delle nostre camerette la prateria più sterminata, il territorio pieno di bisonti della nostra fantasia.

Dunque, ho ucciso Liberty Valance. Fu la cosa più vicina a un grazie che osò mai dire.

In questi giorni, una è venuta e mi ha raccontato quattro storie, quattro storie bellissime, da frontiera e da cameretta. Lei si chiama Dorothy Johnson, ed è la più grande autrice del genere western, ed è molto probabile che la maggior parte delle lettrici o dei lettori non ne abbia mai sentito parlare, ma di qualcuno dei suoi racconti sì. Andiamo per ordine, esce in questi giorni da Mattioli 1885, con la traduzione di Nicola Manuppelli, L’uomo che uccise Liberty Valance che comprende il racconto che dà il titolo al libro più altri tre. Quattro avventure western strepitose, tre delle quali le abbiamo conosciute soprattutto perché sono diventate dei famosissimi film: L’uomo che uccise Liberty Valance, appunto, Un uomo chiamato cavallo e L’albero degli impiccati. Film bellissimi che hanno catturato e, in un certo senso, reinventato il nostro immaginario da ragazzini. L’ultima novella si intitola Una sorella scomparsa ed è bello come gli altri tre.

Lui non era più un cavallo ma una specie di uomo, un mezzo indiano, ancora povero e inesperto ma carico di onori, aggrappato ai margini della società dei Crow.

Su Johnson va detta una cosa importante: è stata una grande scrittrice di racconti. Certo, si è dedicata al genere western, ma l’accuratezza del linguaggio, la capacità di presentazione delle scene, la precisione dei dialoghi, la cura per i dettagli, l’estrema attenzione a non eccedere in una descrizione superflua, in un aggettivo inutile, la rende a tutti gli effetti una scrittrice degna delle maggiori autrici di short stories nordamericane.

Un breve pezzo di corda, tagliata di recente, pendeva dal ramo e oscillava la vento, quando Joe Frail percorse questa strada per la prima volta a piedi, tenendo per le briglie il suo cavallo sellato.

Chi ha visto i tre film ricorderà almeno vagamente le vicende che si narrano, bene, le dimenticherà. Questo non accade per il solito discorso – ovvero che la pagina scritta vince sempre rispetto al cinema (anche perché non è sempre vero) – ma perché questi racconti creano un mondo nuovo, la scrittura di Johnson ci porta a immaginare i personaggi che fanno gesti nuovi e diversi, con facce e corpi diversi. Non vediamo James Stewart e John Wayne, non pensiamo a Richard Harris o a Judith Anderson, non sorridiamo riconoscendo Gary Cooper e Maria Schell. Chi vediamo sono gli attori pensati da Johnson, sono i gesti che immaginiamo vedendoli saltare fuori dalla pagina. Chi spara a Liberty Valance lo fa in un modo che non conoscevamo, perché non avevamo mai letto la storia originale. Chi viene catturato dagli indiani, viene chiamato cavallo e vive nell’accampamento, e impara il linguaggio, e impara i gesti da fare, e impara il modo di riconoscere i sentimenti dei pellerossa, non è più l’attore Harris, ma qualcuno che noi immaginiamo, e ha altri colori, altre espressioni, un’altra gestualità.

La Bessie che tornò da loro era una donna anziana che strascicava i piedi nei mocassini, il cui vestito scuro copriva male il corpo massiccio. I capelli castani le scendevano appena sotto le orecchie. Stavano ricrescendo: quando era stata portata via dagli indiani, glieli avevano tagliati per uccidere i pidocchi che li infestavano.

Una è venuta è ci ha raccontato quattro storie, ne avevamo sentito parlare ma non le conoscevamo sul serio. Quattro racconti nuovi che in un paio di sere ci hanno riportati là dove volevamo tornare: a cavallo, in un saloon, in una stalla, in un accampamento indiano,  accanto a un fiume, a discutere di vita o morte in quel mondo e territorio dove il confine è sottile, dove legge e giustizia rispondono ad altre regole, dove il nemico non lo è del tutto, dove l’amico arriva da una somma di circostanze prima che da una scelta o da una conoscenza, dove le donne scelgono seppur in silenzio, seppur senza lasciarlo a vedere, dove l’amore per qualcuno significa anche metterlo su un cavallo e lasciarlo andare.

La tecnica sopraffina di Johnson trasporta dalle prime parole, le lettrici e i lettori, nel cuore della storia ed è esemplare nella modalità in cui chiude, c’è sempre una sospensione intorno all’epilogo, qualcosa che non ci è dato sapere, un dettaglio, un pensiero trasportato dalla polvere della prateria oltre il finale.

 

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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