di Giorgio Ghiotti

Sono da poco in libreria, per le edizioni Tetra, i quattro nuovi titoli che vanno ad arricchire la costellazione di racconti con i quali questa giovane e casa editrice ha deciso di inserirsi nel panorama editoriale e culturale italiano. Giorgia Tribuiani in Superstar racconta in presa diretta uno storico duello di wrestling nel quale, sul ring, vi è molto più che due uomini pronti a combattere; ci sono tutte le loro speranze, moltissimi fallimenti, l’occasione ultima per correggere la sfortuna e ammansire il fato, essere chiamato ‘vincitore’. Un fitto dialogo sulla natura umana e sulle sue altezze e bassezze (fa parte di entrambe, con un peso oscillante verso le seconde, il mondo editoriale italiano) è al centro del racconto metanarrativo La piccola gente firmato da Alfredo Palomba, impegnato in una conversazione telefonica con Mark David Chapman, l’assassino di John Lennon. Irresistibile il viaggio di Antonio Moresco ne Il finimondo, inviato speciale nella città dei morti dalla quale riporta a noi lettori incontri avventure e dialoghi che compongono un ritratto ricco e impietoso delle nostre attuali società. Chiude la quartina il racconto di Valeria Viganò I numeri sono buonissimi; a lei e al suo libro, per riconoscenza e amore della sua letteratura, dedico i miei numeri mai ascoltati né giocati, e le parole che seguono.

Attendere un treno, vigilare orari e passi, sperare che da quella carrozza qualcuno scenda e alzi una mano, ci venga incontro, riallacci momenti e ricomponga frammenti di quella vita di prima cui abbiamo affidato parole e gesti, l’immagine più familiare di noi. Invece, da quando è stata lasciata con due ridicole frasi dal suo compagno Sean (“Basta, devi capire che è finita, finita. Non posso più amarti”), la protagonista di questo folgorante racconto se ne torna a casa dalla stazione ogni giorno senza nemmeno la consolazione di un fantasma, o di un ricordo.

C’era la vita di prima: timbrare il cartellino in azienda, docilmente condividere la scrivania gomito a gomito con altre persone; e poi c’è la vita del mezzo. Perché da quando ha iniziato a scrivere, ad affidare a un quaderno nero la sua storia e i suoi piccoli deliri privati – “l’amore fa davvero ammattire” – scegliendo di leggerli a una sua ex collega con un marito editore, V. (solo che il nome inizia con questa lettera, sappiamo) batte rumorosamente a macchina lettere e parole ricopiando alacremente dal quaderno. Vedrai, assicura l’editore, sarà un successo. Chi non vuole ficcare il naso nella vita di un altro, non fosse che per distrarsi dalla propria. Rincuorarsi. Ma quel libro, e un secondo ancor più sfortunato, vende pochissimo, parentesi chiusa, fine carriera.

È sulla terza vita di V., sul suo oggi ossessivo e commovente che indugia e indaga la straordinaria scrittura di Valeria Viganò, giocando e riflettendo sul tempo, svelando i secondi piccoli che si nascondono dentro il grande passare delle ore, dei giorni. Cronologie sospese, lancette interiori, accorgimenti e rivelazioni battono il tempo nuovo: quello dei numeri che sono davvero buonissimi e che, dopo la delusione e lo spavento delle parole, assicurano un meccanismo esatto e indolore per comprendere il mondo, attraversarlo. Le parole non sono onnipotenti, e si sfondano. Così la donna che ieri attendeva un amore al binario e oggi si è arresa al Tempo, rievoca dal passato le tabelline, “prime sicurezze in un mondo ancora ignoto, le vere regole alle quali non si sfugge”, e anestetizza il vuoto e la ferita di certe frasi col pieno delle sequenze alfanumeriche. Il suo numero preferito: il 10, perché sulle targhe è quasi sempre accostato a un compagno che lo fa scomparire, disintegrandolo. E poi era il numero civico della sua casa (dell’esistenza) di prima, in un banale condominio, la stanza affacciata su un cantiere, i lavori per la metropolitana accanto al portone ad assicurare un continuo fragore, a rompere la solitudine.

I numeri sono buonissimi è un racconto scritto con la grazia e la ferocia controllatissima che almeno una volta nella vita a chiunque tocca in dono di sperimentare, ed è una storia che, nella sua brevità, si inabissa e riemerge da spazi e tempi che sono gli spazi e i tempi di tutti. Se fosse un film, questo libro così prezioso sarebbe girato col bianco e nero iniziale del Mago di Oz, quando Dorothy è ancora nelle grandi praterie del Kansas e un senso sospeso, minaccioso ma favoloso pure, preme dal cielo e porta in alto la casa, con tutto quel che segue. Certe storie, come questa di Viganò, sono un sortilegio e una condanna, e prendono ad abitare in noi per un tempo potenzialmente infinito perché parlano di temi ancestrali, il tempo mancato e quello che, nel passato, continua a mancare e a mancarci per sempre, e l’ignoto che si spalanca di fronte alla solitudine, e i nostri maldestri tentativi per fare tappi contro i buchi che continuamente scavano in noi.

L’attesa è in queste pagine struggente e irrisolvibile come nello splendido racconto Ieri di Agota Kristof, ma alla tenerezza disarmante si sostituisce l’ossessione che trova, come da manuale, al suo interno l’ordine perfetto per trascinare avanti l’esistenza. È di una perdita che siamo testimoni, e coprotagonisti di un ragionare lucidissimo, come in certi racconti di Janet Frame. Se la realtà non basta, è nell’immaginazione che V. trova riparo, un immaginare continuo e razionale, in cui i numeri sostituiscono il sentimento che è qualcosa di così evanescente e transitorio. Ed è vero quel che lei stessa afferma, che l’immaginazione “valica il presente, si contrappone al passato e promette un futuro”, e che i numeri la provocano sostenendola e perpetuandola. Ma è anche vero (rubo le parole a Giorgio Agamben) che “se fai della finzione la tua sola realtà, allora trovi la certezza, ma perdi la speranza”. Forse ai numeri ci si affida devotamente quando si inizia a capire, tremando davanti a tale ineluttabile offesa, che la vita – la nostra stessa vita – è qualcosa che accade “fuori dalla portata / della nostra presenza” (Szymborska). Una forma di razionalismo magico, perpetuato nel mistero di un tempo che è il nostro tempo, un enigma che non può essere sciolto e che si accetta solo accogliendone la fragilità per intero, la sua parziale interezza.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati