È noto che, per il padre della psicanalisi, e per tante e tanti della sua progenie, il ritorno allo stato inorganico non segna un traguardo commendevole: marcatura di una pulsione di morte che è tendenza a disgregare le unità vitali e propiziare il ritorno a una condizione anteriore. La fregatura è che quella condizione non c’è, almeno secondo chi si figura un inconscio strutturato come un linguaggio, semanticamente ordinato, che produce senso e distribuisce verità. L’inorganico è una condizione in cui la vita rimane a tutti gli effetti priva di organizzazione, in cui la parola perde la sua univocità e viene a significare al contempo questo e quello, rompendo l’interdetto ordinato e ordinante di un sistema simbolico che pare l’unico mezzo per disporci a quella pratica chiamata civiltà. Sfregio e offesa all’ordine progredito, l’inorganico è terreno di coltura di pulsioni che conducono la vita verso la sua destinazione ultima, che è la sua stessa abolizione. E il tono dell’umore ha solo da perderne, perché ci porta nel clima plumbeo di un cupio dissolvi spoglio dell’ascetica dissipazione mistica e redolente, all’opposto, dell’inferno psicotico di un Artaud che si scuce e ricuce gli organi del corpo come fossero pizzi e merletti.

Ora, se c’è una forma di vita che pericolosamente muove sul confine più estremo tra l’organico e l’inorganico, questa è il virus, con la sua capacità anfibia di abitare due stati distinti. Quando non è in contatto con una cellula ospite, il virus rimane completamente inattivo. Durante questo periodo, al suo interno non si dà alcuna attività biologica. Nondimeno, questo ha poco dell’inorganico, e mostra quanto falsante sia l’opzione a tutta prima intuitiva e plastica dell’inorganico come opposto all’organico. Il virus, in effetti, è un organismo obbligato all’attesa, fermo in uno stato semplice, privo di vitalità, in cui è detto “virione”. Insensibile com’è ai tempi lunghi, il virione aspetta l’ospite appropriato, che gli consenta quel minimo, o massimo, di attività vitale mediante cui poter superare la soglia dignitosissima del vivente e sfoderare quella panoplia di arnesi e sotterfugi che lo portano all’auto-replicazione. Capacità, quest’ultima, che gli permette di correggere il viziaccio tipico degli specchi e della copula, che Bioy Casares ritiene abominevoli perché moltiplicano il numero degli esseri umani. Essì: perché l’auto-replicazione dei virus tempera, e non di poco, quella umana.

Benché in ragione di detto quantum d’incompatibilità esistenziale un elogio dell’inorganico a mezzo elogio del virus possa non sembrare il più invitante tra i manifesti per la vita, un recente esercizio di etnografia del vivente dissipa a tal riguardo ogni sospetto. In Senza respiro (Adelphi 2022), David Quammen s’inerpica per la strada sdrucciolevole dell’investigazione tardo-vittoriana che mescola deduzione e induzione allorché si mette sulle orme del virus SARS-CoV-2 e della sua misteriosa comparsa per dimostrare che di misterioso, come in ogni giallo d’autore, non c’è proprio nulla. Questo l’innesco della trama: secondo il resoconto diffuso, la prima pubblicazione della sequenza genetica completa del SARS-CoV-2 emerge quando lo scienziato cinese Yong-Zhen Zhang, della Fudan University di Shanghai, violò l’ordine del Governo cinese che vietava ai laboratori di pubblicare i dati. Il 10 gennaio 2020 Zhang chiamò il suo collaboratore australiano, il biologo evoluzionista britannico Edward Holmes, e gli chiese di pubblicare la sequenza online. Secondo Quammen, tuttavia, il resoconto è scorretto: già il 9 gennaio la sequenza completa era stata caricata su Gisaid, un database genomico su scala planetaria. Era stata pubblicata per mano di George Gao, direttore del Centro cinese per il controllo delle malattie di Pechino, in accordo con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nessuno ebbe la buona creanza di prendere nota della prima pubblicazione, mentre tutti collocano la seconda come l’inizio di una spirale di eventi angosciosi e deliranti.

Insomma, si potrebbe senz’altro leggere Senza respiro come fosse l’opera di un redivivo Wilkie Collins, che univa uno stile cautamente dickensiano al gusto per il melodramma e per il colpo di scena. Eppure, la mia ipotesi è che il libro di Quammen pretenda essere molto di più: e voglio qui mutilare il piacere di chi amerebbe leggere un giallo pur scritto con precisione e scrupolo con il riferimento a seccanti e convolute teorie filosofiche sul modo in cui la vita si procura continuità. Quindi, si riparta.

Nel terzo capitolo, Quammen fa riferimento alla scoperta fatta nel 2003 di un virus primordiale: un virus originario, “‘impossibile’: di natura virale ma fuori scala, come una farfalla amazzonica appena scoperta con un’apertura alare di centoventi centimetri” (p. 158). Quel virus, scrive Quammen, esce da ogni schema interpretativo della dinamica virale perché possiede le istruzioni per assemblare gli aminoacidi e formare le proteine. Le tracce del virus impossibile sanno di sberleffo rispetto alle distinzioni consuete tra vita e non vita, e in tal senso ne fa uso l’autore quando mette in questione la nozione troppo esile di vita e con affresco lirico definisce i nostri virus quali eredi di un grande impero genomico, “di quel regno cellulare scomparso”, di cui “rimangono solo i virus, simili ai corvi con le loro vestigia genetiche profonde di Tyrannosaurus Rex” (p. 160). Ma perché cercare un virus primordiale che possa far vanto della scomoda proprietà della vita, quando i virus nostrani dimostrano tanta efficacia come funzionari del parassitismo, liberi degli obblighi importuni e delle note incombenze di chi deve provvedere a una vita tutta sua? L’autore insiste su un punto squisitamente teorico: l’idea secondo cui “i virus non dovrebbero affatto essere inclusi nell’albero perché non sono vivi” incorre in una circolarità irresolubile, “che dipende da come si definisce la parola ‘vivo’” (p. 157). Il Mimivirus, il virus originario che mimava i batteri, ha dato corso a una genia che ha preso le mosse da una cellula attraverso un processo di riduzione genomica. Ipotesi del massimo interesse, perché fa luce su una scelta senza esitazioni per la vita liminare, funzionale a una più efficace strategia delle alleanze parassitiche con le cellule ospiti. Insomma, questo parziale ritrarsi verso l’inorganico pare abbia offerto ai virus la ricetta per una sempre nuova giovinezza.

Verrebbe la voglia qui di chiamare in causa l’ontologia spinozista, così indifferente allo scarto tra essere umano, animale e cosa quando considera “le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici o di corpi” (Eth. III, Prefazione): mossa che vale una controstoria del pensiero occidentale, se è vero com’è vero che in tal modo ha rotto i protocolli ordinati delle grandi diadi mente vs. corpo, umano vs. nonumano, natura vs. cultura. Sarebbe qui massimamente utile perché consentirebbe di mostrare come la vita trovi continuità proprio in quell’intrico di alleanze tra entità diversissime che si sottraggono reciprocamente quote di vita: il corpo umano disgrega le entità che lo nutrono fino a quando nella tomba non nutre i lombrichi che contribuiranno all’arricchimento della terra che produrrà nuove entità per nutrire altri corpi umani. C’è ben più che l’encomio del ciclo vitale: c’è l’idea di un passaggio di potenze entro una vita che è indivisibile nella sua unità profonda.

Ma se è vero com’è vero che una sortita rapida nella più densa delle ontologie moderne sarebbe impossibile senza vistose sgrammaticature, tanto più gravi per chi il Ministero dell’Università ha crismato filosofo, converrà tentare una via di fuga a un tempo più sicura e più piacevole. Una delle più devote tra i devoti e le devote del rinomato molatore è Clarice Lispector, secondo la quale “molte risposte si trovano in affermazioni di Spinoza. Nell’idea, per esempio, che non può esserci pensiero senza estensione (modalità di Dio) e viceversa, non è forse affermata la mortalità dell’anima? È chiaro: mortalità come anima distinta e raziocinante, impossibilità evidente della forma pura degli angeli di san Tommaso. Mortalità rispetto a ciò che è umano. Immortalità grazie alla trasformazione in natura. Nel mondo non c’è posto per altre creazioni. C’è solo l’opportunità di reintegrazione e continuazione” (C. Lispector, Vicino al cuore selvaggio, Adelphi 1987, p. 118). La chiosa è quanto in questa sede più interessa, e sintetizza con stile tragico e sublime soavità il messaggio di fondo di Senza respiro: i virus fanno da compendio per una laboriosa teoria della complessità, che mostra come vita e morte siano da pensare in termini di reintegrazione e continuazione. Quella scelta di approssimare l’inorganico, da parte del virus originario che cedette quote di vitalità, non fu che la formula per una più efficace mobilità nelle segrete dell’esistenza organica.

Se ne ricavano due esiti su cui converrà meditare più a fondo nel futuro delle catastrofi a venire. Per un verso, l’indicazione per una più affidabile diagnostica che fa forza sull’invito a un metodo capace di sostituire l’esigenza famelica di individuare il colpevole con la pazienza etnografica di seguire le tracce. Per l’altro, una sorta di rinuncia parziale all’ottica ultraconservatrice per cui “non si conosce nessun virus che faccia del bene” (p. 156), perché noi esseri umani, proprio come i virus, possiamo farci capaci di alleanze strategiche con quanto minaccia il ritorno all’inorganico.

Sul primo versante, Quammen ha il merito di non frustrare mai il piacere di chi legge con facili rampogne sull’inettitudine delle istituzioni, e di eludere il tono fatale dell’indovino che ha la facoltà d’esser savio. Insiste piuttosto sulla vacuità delle spiegazioni unilaterali e ricostruisce il tessuto dei fatti come una rete trapunta di eventi esposti a una decodifica negletta che certo avrebbe evitato il verificarsi di eventi peggiori. È scettico nei confronti dell’ipotesi dell’errore di laboratorio non tanto per dovuto omaggio al vaticinante successo del suo Spillover (Adelphi 2014), quanto perché il riduzionismo è sempre miope. L’invito piuttosto è a seguire il movimento vitalissimo dei virus, individuarne gli spostamenti, cifrarne le deviazioni e soprattutto studiarne le alleanze (certo sempre parassitiche) con i corpi che infestano – mettersi in sostanza nei panni di chi, come il virus, sa congiungere il coraggio dell’esploratore al virtuosismo del funambolo. Se un’indagine seria sulle origini del virus richiede la mappatura degli innumerevoli passaggi con cui esso si procura continuità nel tempo, una conoscenza di questo tipo, che accumula un sapere per così dire “interno” all’ottica del virus, consente non certo la previsione dei prossimi passaggi, ma una maggiore capacità di localizzarli – come in fondo, dice Quammen, sarebbe stato possibile se si fossero messe in comune le informazioni disponibili prima del 2020.

Sul versante invece del rapporto con i virus, lo spinozismo tacito di Quammen apre a nuove possibili alleanze – va da sé, con tutta la circospezione del caso. Seguire le tracce di un’entità che non ammessa all’ordine civilizzato del simbolico, e che pericolosamente lambisce lo stato inorganico pur senza mai aderirvi del tutto, dà accesso al vortice dell’itinerario che va dal Mimivirus ai pangolini del Guangdong costretti nei mercati di Wuhan – un itinerario che fa da vademecum per una più plausibile definizione della vita come continuazione e reintegrazione, in cui l’egotismo antropico cede il passo a una realtà intesa come complesso viluppo di entità che cooperano e competono. Benché mai scevro – com’è giusto che sia – di toni che a tratti lambiscono il luttuoso, Senza respiro è un libro sulla vita e sui modi con cui l’umano può prendere le giuste misure per difendersi da quanto è lì pronto a disgregarlo per farsi a sua volta vita. Prendere atto di una forma di vita tanto intelligente, non solo riduce drasticamente la plausibilità di spiegazioni unilaterali, ma apre alla possibilità di un’esperienza prospettica in cui il mondo appare visibile dal crocicchio che congiunge vita e non vita. Da orditura incessante di eventi inafferrabili e destinali, il mondo diventa il campo in cui il dramma della morte riconfluisce nel seguitare della vita. Se certo questo non pone riparo né offre consolazione al dolore di chi ha perso i propri affetti, promette quantomeno che dal male si possa trarre un’utile indicazione per allargare le strettoie dell’intelligenza umana perché estenda la mappa delle proprie insospettate connessioni con quanto pure ne minaccia di continuo l’esistenza. Una forma di insospettata intelligenza col nemico.

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1 commento

  1. Ma poi non si è saputo più nulla se il “famoso” virus che ha scatenato una pandemia globale era naturale o creato in laboratorio. Non se ne parla più.

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marianocroce@minimaetmoralia.it

Mariano Croce insegna Filosofia politica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa di critica sociale, postcritica, battaglie LGBTIAQ+ e politiche della trasformazione sociale.

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