Con gli occhi chiusi non è soltanto il titolo di un grande romanzo di Federigo Tozzi ma anche la condizione di vita delle donne itako, raccontata dall’antropologa Marianna Zanetta, nell’ultimo libro ITAKO. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo (Mimesis, 2024, pp. 258, euro 20). Le itako sono donne cieche che, nel rituale dello kuchiyose, «lasciandosi possedere dallo spirito di un defunto» svolgono la funzione di medium con il mondo dei morti. Raccontando la loro vita nel Nordest del Giappone, l’autrice del libro ci introduce nel concetto simbolico del Kegare, l’impuro, mostrato nella relazione teorica tra la purezza della vita e l’idea sporca della morte. «La morte è l’impurità per eccellenza», il disordine imminente, la «minaccia di portare nuova morte nella comunità dei vivi».
La memoria del Giappone corre al celebre commodoro Matthew Perry che costrinse (con la minaccia delle cannonate) l’impero Meiji ad aprirsi dal suo secolare isolamento. Forzato da un rapido processo di globalizzazione il Giappone ha spesso finito con il rifugiarsi in montagna.
È lì che si nascosero gli ultimi samurai di Kurosawa, che trovarono rifugio gli asceti yamabushi; ed oggi vivono ed operano le sciamane itako. Vittime di una cecità congenita o di una malattia più tarda, le donne itako sono operatrici rituali che, in un articolato stato di possessione, dispongono la relazione tra abitanti e spiriti degli antenati, costituendo l’immagine esemplare di una riflessione annunciata tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Esse, infatti, rappresentando «il corpo del defunto» raffigurano «la variegata comunità dei sopravvissuti – intesa come la famiglia più immediata, ma anche [come] la società circostante nel suo complesso», e pongono le basi per la riparazione di una certa crisi del cordoglio, attutata a partire da quella stessa commiserazione che fonda (e argina) ogni società. «Una persona non muore al singolare, ma al plurale. Un morto è molte cose per diverse persone», scriverà Bernstein in Modern Passings: Death Rites, Politics, and Social Change in Imperial Japan.
La morte è una «lente popolare», posata sopra le «dinamiche sociali» più complesse, istituite ben oltre la concezione europea di morte intesa quale singolarità d(‘)istante.
Il mondo dei morti è nel mondo dei vivi – è il trapasso! – poiché ogni morte non è mai soltanto un momento ma, semmai, un percorso. Nel mondo di una comunità agricola, quale è quella in cui operano e sopravvivono le sciamane itako, la cecità invalidante mostra di superare la definizione «di inutile o indolente» per divenire appieno necessaria. Le itako attraversano la cecità affermandosi quali protagoniste della vita sociale in comunità, a partire da quella stessa caratteristica invalidante che le aveva dolorosamente contraddistinte.
La loro storia, tramandata da un’oralità antica, è destinata, al modo delle sue protagoniste, ad una inevitabile estinzione. Scegliamo allora di occuparci di questo tema perché, come per il destino toccato in sorte alle sciamane kannagi, ridotte «a mere danzatrici», le «voci accademiche e locali» hanno ormai predetto l’estinzione delle donne itako. Il welfare, inesorabile(?), portando per ciascuna di queste sciamane cieche «valide alternative di sussistenza», ha però lasciato scoperto il mondo, non meno importante, della rievocazione dei morti. La questione è seria. Rifugiati nell’acquisizione di una diversa qualità della vita non possiamo smettere di ragionare sul significato di un simile vuoto lasciato nel mondo dalla scomparsa di tali presenze. Sorge quindi immediata e naturale una domanda: «domani, quando l’ultima sciamana itako sarà scomparsa, chi parlerà ancora con quel mondo dei morti?» Non potendo sbrigare la questione senza considerare la centralità che la morte ha rappresentato per la vita comunitaria, dentro e fuori il Giappone, lasciamo aperta la domanda.
«La percezione è quella del diradarsi della vita umana a beneficio di altro», ma il crollo della centralità che i morti hanno significato per le nostre vite impone urgentemente nuove riflessioni. Ci chiede di tornare a quella lunga serie di rimossi e questioni insolute, non meno tragiche e serie di quanto siano state considerate per le itako – sia pure a ragione! – quelle terribili malattie. Dovremmo, forse, cominciare con il ricordarci quanto nel tenere la morte a distanza, teniamo anche la vita lontana. Sono lontani i tempi in cui, come scriveva Van Gennep, i riti funebri sembravano differenziarsi da tutti gli altri essendo stati considerati, tra tutti, i più articolati. Occorre dunque ragionare – e ragionare in fretta – sulle troppe insufficienze che la società dei bisogni ha imposto per ogni individuo.
Il mondo della sola trascendenza, certo, non basta, ma è pur sempre una parte necessaria nel vivere comunitario di ogni giorno. È, diciamolo pure, una parte non meno reale e non meno importante di tutto quel mondo che con troppa genericità(!) diciamo essere il mondo immanente. Da una tale immanenza dobbiamo oggi ripartire. Potrebbe essere questo il primo appunto recuperato da Marianna Zanetta nelle memoria viva delle ultime sciamane itako.
In attesa del triste giorno in cui, avendo ricordato qualcosa da chiedere ai nostri morti, non sapremo più parlare la loro lingua.
Mario Soldaini è nato a Roma nel 2000. Ha studiato presso il Liceo Classico Ennio Quirino Visconti. È stato membro della giuria giovani del David di Donatello e Leoncino d’oro al Festival del Cinema di Venezia. Organizza concerti e mostre d’arte. Da sempre appassionato di letteratura italiana, collabora con diverse testate. Studia Filosofia presso la Sapienza di Roma e Global History (GHL) presso la Princeton University.
