
“Dino Egger appare in negativo. Ha l’evidenza del cratere. Il suo biografo non avrà vita facile, dato che il suo compito consiste nel farlo venire al mondo, nel dargli quella consistenza che gli fu rubata in seguito a una serie di malaugurate circostanze e sfavorevoli casualità”.
Il gusto per l’incongruo di Èric Chevillard, voce irriverente del panorama letterario francese contemporaneo, trova una traduzione metafisica in un anomalo romanzo che indaga una figura mai esistita. Il protagonista, Albert Moindre, già noto in Santo cielo (trad. Gianmaria Finardi, Prehistorica editore, 2022) per le traversie burocratiche affrontate dopo la sua morte, qui trascorre la sua vita a mettere in rassegna ogni epoca storica e a viaggiare per il mondo alla ricerca di tracce dell’inesistenza di quella mancata figura illustre dell’umanità.
Di quello che sarebbe potuto essere un filosofo antico che dispensava la sua parola in una foresta di colonne con Socrate ad ascoltarlo in silenzio, che avrebbe potuto vivere nell’Impero Inca, nella Cina dei Tre Regni, a Ispahan nell’XI secolo, in Norvegia sotto Magnus VI, nella Firenze dei Medici, essere un inventore londinese del XIX secolo, o uno scienziato anatomico autore di un trattato antropofagico, Albert Moindre arriva a stilare centoventisei imprese, scoperte rivoluzionarie e assurde, dall’addomesticamento del fuoco “tipo cane da concorso”, al teorema delle ance, alla scoperta di un nuovo colore “corrispondente al preciso stato interiore di chi si accontenta nella disgrazia”.
Con un uso sapiente dell’elemento comico, Chevillard si muove nell’assurdo per amplificare manie e ossessioni, misurare aneliti e visioni, indagare lo sconfinamento dell’irreale, la dissociazione, attraverso uno studio di matrice filosofica sul nulla inteso non come mera assenza ma come “mancanza di cui soffre ogni lucida coscienza, l’abisso che questa contempla[…]”.
Studiare nei minimi dettagli una vita incompiuta, oltre a risolversi in un atipico gioco al contrasto con un sapiente allestimento di esasperazioni e un lavoro sul linguaggio che induce consapevolezze nuove in chi legge, rappresenta nell’opera l’emblema di un’indagine sull’umanità, sulla storia del pensiero, sui limiti della conoscenza, resi anche attraverso interrogativi teologici e istanze metafisiche che si alternano sulla pagina. Con frequenti cambi di registro e uno studio strutturale mirati a generare una confusione necessaria a tradurre il caos interiore del narratore, l’autore compone un mosaico in prosa retto sugli equivoci, sul senso di alienazione e sullo smarrimento perenne, con deviazioni grottesche nelle venature comiche e affondi lirici che sostengono il dubbio su cui si fonda l’intera opera, a partire dall’identificazione del nulla come primario oggetto del trattato.
“Il nulla definito come pura assenza di cose porta un altro nome, lo spavento o la vertigine. Il nulla è dunque rifiuto delle cose, dopo attento esame”.
Quello che inizialmente si palesa come un intento vano, gradualmente sostanzia nell’opera il solco di una ricerca che si evolve sulla base di scoperte che lambiscono i concetti di identità, trasformazione, mancato riconoscimento di sé, messa in dubbio del passato, inganno della memoria. L’incedere narrativo è marcato dalle nuove scoperte che fissano traguardi transitori e vani nel percorso accidentato del protagonista, che volta per volta si convince di aver compreso il senso dell’opera di Dino Egger, a partire dal suo ruolo di denuncia delle imposture, sino alla perfetta assonometria: la sua assenza intesa come sacrificio estremo, un’astensione per creare le condizioni per una rivoluzione totale, incompresa però dal mondo che avrebbe dovuto poi attuarla.
A caratterizzare l’opera un disegno narrativo concepito tra continue variazioni e che nel frammento identifica lo strumento per misurare le incoerenze irrisolvibili dei percorsi mentali del protagonista, rese tra effetti tragicomici e grotteschi e stacchi lirici improvvisi, necessari anche per contribuire al continuo stravolgimento dei piani. L’esito è un’opera non ascrivibile in senso stretto a un romanzo, ma più vicina a un’azione sperimentale di reinvenzione di un genere, per la cura riservata alla struttura, ai suoi congegni narrativi e allo studio della lingua. L’immaginazione di un filosofo nell’azione quanto nel pensiero, ritenuto più strutturato di Pascal nell’affrontare l’abisso, “più indurito di Kant prima o dopo di lui nelle sue abitudini, meno intempestivo di Nietzsche prima o dopo di lui ma altrettanto folgorante”, favorisce la costruzione di una mancata vita di avventura e poesia, aspra e spietata, dai toni picareschi.
Il nitore della prosa si rivela il primo espediente per alimentare l’ambiguità su cui si regge il discorso narrativo, palesata nelle frequenti alterazioni liriche e negli abbagli attraverso cui Chevillard allestisce una tetra, giocosa, disperata messinscena di cui il protagonista-artefice diventa vittima. L’espediente incongruo permette all’autore di compiere una feroce denuncia politica dei meccanismi alla base della celebrazione di nuovi miti, indaga le ragioni di una necessità di dipendenza a un credo o a un ideale a partire dai tragici effetti dell’assenza di un dissidente che contesti l’ordine sociale, la menzogna politica e l’asservimento dell’arte e della scienza. Quel che permane è l’idea di un’opera che a prescindere dal suo ideatore si elabora e si evolve e getta sul suo disperato studioso la responsabilità di farsene portatore, al punto da confonderne l’identità e incarnare la rabbia verso il mondo provata da un genio mai nato.
“Adesso ho la certezza che la vacuità della mia esistenza fosse la condizione necessaria a questa rivoluzione di tutto il mio essere che si profila oggi. Gli occorreva questo vuoto, questa totale disponibilità per potersi compiere”.
Tra continui interrogativi sul senso di una vita non vissuta, con Dino Egger Èric Chevillard compie uno studio sulla natura umana, sulla miseria di esseri che dal primo momento in cui si armarono non smisero più di farlo, diventando eterni soldati. L’opera è un elogio del nulla, una riflessione sull’incapacità generale di percepire la prigione di una catastrofe permanente che inibisce in tale caos ogni forma di armonia e annulla qualsiasi spazio per uno stravolgimento radicale e salvifico.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.