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di Alessia Siciliano

Sono cresciuta in una città di provincia del Sud, negli anni in cui ancora non esisteva la movida e il sabato sera lo si passava a bere in un bar senza tavoli dopo aver scollettato tutto il pomeriggio in sala giochi. Una città di provincia in cui — erano gli anni novanta — quasi un’intera generazione abbastanza vicina alla mia è stata spazzata via da un mostro.

Ho 45 anni e quando ne avevo 20 ho avuto una relazione con una persona che aveva una dipendenza da eroina.

Quando su Netflix è uscita la serie San Pa, luci e tenebre di San Patrignano ne hanno parlato tutti. Quando su Netflix è uscita San Pa, io ho impiegato più di un mese per trovare il coraggio di guardarla. Sapevo che mi avrebbe costretta a fare i conti con una di quelle questioni che tendono a nascondersi in un angolo della coscienza. O dello stomaco, che poi è la stessa cosa.

Mentre guardavo la serie, sepolta sotto due coperte di pile nell’inutile tentativo di proteggermi, come tanti sono rimasta affascinata da Fabio Cantelli Anibaldi, uno dei testimoni. Tra tutte, è stata la sua testimonianza a farmi vacillare ancora una volta sulla capacità di prendere una posizione unica e irreversibile riguardo la vicenda di San Patrignano.

Ospite per circa 12 anni, Cantelli fu poi capo ufficio stampa della comunità. Carismatico e coltissimo, oggi è vice presidente della Fondazione Gruppo Abele di Don Ciotti: un po’ di tempo fa Giunti ha ripubblicato il libro che scrisse tra il ’94 e il ’95, La quiete sotto la pelle, con il titolo San Pa, madre amorosa e crudele. Un libro ritrovato in una biblioteca vicino Rimini da un autore della serie, che ha portato Cantelli a trascorrere sette ore in una camera d’albergo davanti ad una telecamera. Un libro che ho comprato il giorno della sua uscita: anch’io ero ormai chiusa in una stanza della memoria. Pronta ad affrontarne i mostri.

Mi è bastato leggere il proemio per capire che la serie tv non era che una scottatura sulla lingua, rispetto ai cocci di vetro che avrei masticato leggendo.

Il libro racconta l’arrivo di Cantelli sulla Collina di Coriano: incontro traumatico che sancì per la prima volta l’ammissione della sua tossicomania. Il camuffarsi e lo svelarsi, le fughe, alcune disperate, altre razionali, e i rientri, nascosto sul sedile della macchina di sua madre, nottetempo perché il giorno rendeva intollerabile il confronto con la normalità della vita degli altri così estranea alla sua.

E poi il rapporto con Muccioli: complesso, difficile, tenero come quello tra un padre imponente e severo e un figlio gracile e recalcitrante; e soprattutto la riflessione profondissima su una vita urtata per sbaglio e rovinata in terra. Piccoli crash ripetuti e riparati col kintsugi, suggerirebbe una facile metafora, per illuminare la ricostruzione della porcellana con una sottile, potente linea d’oro: la consapevolezza di sé.

Ci vuole un particolare equilibrio per immergersi nell’inferno di un’altra persona, nella sua dolorosa ricerca di una ragione profonda, quella che determina le proprie scelte. Quella che determina la tossicomania.

Il libro è anche il racconto di un’epoca di profondo scollamento dalla nostra contemporaneità, quando la droga era una merce costosa e i tossici nessuno li voleva veramente capire.

Un tempo in cui la società spingeva la polvere sotto il tappeto dell’ipocrisia, lo Stato si limitava a campagne pubblicitarie di dubbia incisività per affrontare il problema e un genitore pregava un uomo che non era né un terapista né un medico di rinchiudere il figlio, catene ai piedi, piuttosto che vederlo morire per strada.

Io me lo ricordo quel tempo: ho conosciuto uno di quei padri, ho conosciuto una di quelle madri.

Me li ricordo gli amici che passavano di negozio in negozio a rubare le bottiglie da rivendere per comprarsi la roba mentre io seguivo lezioni di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea all’università. Anguilla, Ferguson, il Sacro Marameo, il Biondo: nessuno faceva più di tanto caso a quello che facevano, tranne quando arrivava la notizia che qualcuno era entrato in comunità perché cacciato di casa dai genitori, qualcun altro veniva ritrovato morto di overdose a Napoli, dove si era spinto per cercare la roba nei periodi in cui scarseggiava. Un tempo in cui le droghe erano legate a una cultura lontanissima: letteratura, musica, sperimentazione, in una città in cui si andava in pellegrinaggio in un negozietto di dischi per comprare, a volte rubare, la musica che non si trovava nelle vetrine del centro né si poteva scaricare perché il 56K era un lusso ancora di pochi. Un universo fatto di gruppi di amici, con e senza segni sulle braccia, che si muoveva parallelo alla normalità, nel nulla dei pomeriggi assolati di agosto, quando non si trovava nemmeno un alimentari aperto per comprare una birra calda e si passava il tempo seduti su uno scalino a chiacchierare finché qualcuno rimediava un passaggio per scendere a mare.

Adesso si parla poco di tossicodipendenza, le droghe sono diventate merce abbordabile perché più numerosi i fruitori: non è più tema caro ai media o ai governi, ma mercato libero. Eppure la vicenda di San Patrignano e la figura di Muccioli fanno ancora ascolti e tornano prepotentemente a interrogarci su questioni etiche mai risolte.

Sull’onda dell’attenzione e degli eventi generati intorno a San Pa, ho avuto la fortuna di incontrare Fabio Cantelli e di sentirlo raccontare. L’intenzione di scrivere un saggio sulla tossicodipendenza si era trasformata in autobiografia, in catarsi, in un gesto necessario e liberatorio.

Mi sono tormentata tutte le pellicine delle dita mentre, nell’auditorium di una scuola di Torino, lo ascoltavo, uomo magrissimo e ingombrante, parlare con voce morbida a una platea di ragazzi rapiti dal suo volto scavato. Raccontava di come oggi “la dose di coca ti viene consegnata a casa come il sushi”: una dose di eroina costa cinque euro, una cifra inimmaginabile per il Fabio che scrive. È una cifra che negli anni novanta avrebbe drasticamente accorciato le vite di persone con cui passavo interi pomeriggi a giocare a biliardo dopo aver lanciato un pezzo dei Bauhaus al jukebox in sala giochi.

Fabio racconta le strade della Milano di tanti anni fa, i luoghi dello spaccio, la vita dettata dai tempi dell’astinenza. Scrive dei buchi, delle vene distrutte, di siringhe raccattate per terra e sciacquate in una pozzanghera. La sua storia riporta alla luce un’Italia che adesso pare antica, dimenticata, ma per me reale, sebbene nascosta in un serratissimo cassetto della memoria. E soprattutto svela la visione del mondo con gli occhi di una dipendenza, ne illustra le radici impreviste, parlando con una sincerità quasi soffocante di come un tossicomane non sia in realtà dominato da pulsioni di morte, ma di come trasformi la droga in una fonte di vita, sua unica ragione. E mette su carta un pensiero lucidissimo sul fascino dell’eroina quando riporta alla felicità prenatale, a un contatto col tutto.

Si osserva con sguardo onesto e una tenerezza che si riserva a chi ha bisogno di cure amorose. Lo sguardo che gli nasce negli occhi quando, nel 1984, si vede per la prima volta dall’esterno: armi in terra, un piccolo mucchietto di ossa votato al suicidio. Lo sguardo che, anni fa, avrei voluto trovare negli occhi del Biondo — spilli di pupille spente.

Sentire Fabio raccontare, con la voce rotta da un pianto carico di pietà, è stata un’esperienza straziante e necessaria di cui gli sono grata. È doloroso il racconto di un incantesimo che si spezza e quasi lo senti il rumore, mentre ti tornano alla mente le migliaia di parole disperse nel tentativo di convincere la persona che ami a scegliere la vita, un lavoro, una carriera, la famiglia, un maxitelevisore del cazzo. Magari lo avessi saputo quando, su quello scalino, pregavo il Biondo di smettere. Ignoravo che probabilmente era proprio la paura a spingerlo nella ricerca spasmodica di quelle piccole pallottole marroni dall’odore inconfondibile. Nonostante me. La ventenne caparbia che ogni giorno consumava le scarpe per seguirlo in quelle ricerche, negli inutili tentativi di proteggerlo.

L’odore — dolciastro come l’incenso di buona qualità e pastoso come un caffè bruciato — l’ho sentito ogni notte mentre leggevo e attraversavo tante volte il confine tra la mia storia e quella di Fabio, incrociando ricordi e immagini: Fabio nascosto nel suo ufficetto a scrivere, combattuto tra la sua voce pubblica e la sua voce intima, che non convergono più; Fabio nei panni del figlio che soffre nella consapevolezza di dover abbandonare quel padre in cui ha creduto, a cui si è aggrappato e che gli ha salvato la vita; Muccioli, che per me era stato e continua a essere tema di discussioni forti, a cui tante volte ho dato del fascista e del criminale, e che per certi versi incarnò l’unica speranza di salvezza per tantissime persone; e il Biondo, come lo avevo incontrato per la prima volta nei corridoi del liceo, col sorriso luminoso e azzurro; e come lo avevo ritrovato poi, anni dopo, in uno strano incrocio di vite. La sua con l’eroina. La mia con la sua.

Ho fatto di tutto per salvarlo: ho lottato, pianto, supplicato. Fino al punto in cui, una mattina di un’estate lontanissima, per tentare di fermare il suo ennesimo buco l’ho sfidato e sono rimasta a guardarlo mentre si faceva una pera.

Quando ti trovi di fronte a qualcuno che si fa un buco in vena, quando vedi come scioglie la pallottola marrone, morbida e appiccicosa come un pezzo di pongo nelle mani di un bambino, e lo guardi legarsi il braccio con qualunque cosa utile, osservi il coraggio e la mano incredibilmente ferma che dirige l’ago, vedi le pupille che scompaiono in minuscoli puntini di sospensione, non è affatto come nei film. Non ci sono monologhi finali che ti strappano un sorriso cinico. Non c’è colonna sonora.

In pochi lunghissimi minuti e in due metri quadri tutto si sospende, i piedi si piantano nel terreno sporco di città, tra la polvere e il rumore secco di una campana che suona le tredici. È pieno giorno nell’estate lontanissima, eppure cala il buio in quello spazio stretto tra due palazzi, mentre dietro l’angolo arriva il suono dei clacson nervosi di genitori che riportano i figli a casa da scuola, rinchiusi nelle macchine imbottigliate nel traffico e nelle storie di compagni di classe bulli. Penso alle case dove la pasta è stata appena scolata e una nonna ha preparato le polpette.

Io invece sono lì, dietro l’angolo che separa l’estate dall’abisso.

Dietro l’angolo esiste solo l’odore di eroina.

Dietro l’angolo non chiudo gli occhi, non smetto di guardare finché non finisce, lo osservo scegliere di iniettarsi in vena quel liquido sporco mentre mi chiede perché lo costringo a farmi questo.

E non rispondo.

Così chiudo finalmente gli occhi, ma l’immagine c’è ancora.

Ci sarà per sempre.

In quel momento, vigliaccamente o coraggiosamente non lo so, io mollo.

Tra le pagine del libro di Fabio Cantelli ho ritrovato la storia di una storia dimenticata troppo facilmente, quella dell’amorosa e crudele madre che San Patrignano è stata per migliaia di uomini e donne, attraverso la voce di una persona che è riuscita a farci pace. La storia di una parte della mia storia: dimenticata, abbandonata, che qualcuno è tornato a raccontarmi. La scrittura è diventata una ricerca di sé e una riflessione profonda sulla necessità, troppo spessa fuggita, di essere onesti con noi stessi.

Mi sono sentita in colpa per aver voluto dimenticare. No: per aver scelto di non ricordare.

Certi pomeriggi lontanissimi. Un amore da cui mi sono allontanata perché faticoso, troppo oneroso. Il viso del Biondo che oggi non è più su quelle strade — non è più da nessuna parte — e la sua storia che resta comunque parte della mia anche quando dimentico di ricordarla. Ho capito che non ci avevo capito nulla: nessuno me l’aveva mai raccontata così, o semplicemente avevo sempre voluto raccontarmela diversa, schermata di cattiveria: la cattiveria in cui si trasforma l’amore. L’esasperazione, il giudizio.

Mentre le ultime note di un pezzo di Bowie risuonavano nell’auditorium che non voleva svuotarsi, mi sono avvicinata a Fabio e gli ho chiesto se finisce mai, l’innamoramento per certe sostanze. Mi aspettavo che mi rispondesse di no, che ogni giorno si continua a lottare, qualcosa del genere. Invece mi ha sfiorato il braccio, un gesto di cura, di confidenza, di affetto cieco; e ha sorriso, il viso intero una congerie di storie, dicendo che sì, finisce. Basta decidere di sostituirlo con l’innamoramento per la vita vera, piena, con uno scopo.

Io non so quale sia, lo scopo. Il suo, il mio. Quello del Biondo. So che il sorriso ha riempito le crepe in mezzo alla porcellana e io ho fatto pace col ricordo di un altro sorriso. Un ricordo che adesso, con tenerezza, custodisco non più dietro un angolo sporco e buio — ma un angolo pulito, illuminato bene.

 

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6 commenti

  1. È un articolo doloroso ma bellissimo, faccio i miei più vivi complimenti alla autrice non solo per il coraggio di raccontare questioni personali ma anche per lo stile e il tono della scrittura, che tocca profonde corde emotive senza scadere nel melodramma, mantenendo una elegante lucidità di analisi e, soprattutto, compassione.

  2. La bellezza delle storie sta (anche) nella loro capacità di intrecciarsi ad altre storie, generando narrazioni sempre nuove. È quello che succede qui, e dalla narrazione nasce un’introspezione sincera e dolorosa, qualcosa di autentico, che mi ha toccato nel profondo. Grazie.

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