
(foto di Dino Ignani, fonte immagine)
Al principio sono solo sprazzi di lucidità. La coscienza funziona a intermittenza. Il resto è un vasto mare in cui si galleggia senza capire bene dove il corpo finisca e l’acqua cominci. L’io è contaminato dal mondo esterno e dal mondo interno, esposto alla vaghezza e all’indeterminazione. Il sonno e la veglia non sono fasi distinte, ma coesistono in un coacervo di sensazioni confuse, faticose da decifrare. Tutto è irrimediabilmente strano.
Stiamo parlando di Un altro tempo, l’ultimo libro di Giovanna Rosadini pubblicato da poco da Interno Poesia, un libro che, undici anni dopo Unità di risveglio, racconta il ritorno alla vita dell’autrice dopo un periodo di coma seguito ad un malore avuto quindici anni fa.
Dopo l’incidente, Rosadini è rimasta in stato di incoscienza per alcuni mesi, priva del ricordo di se stessa, dei propri cari, del mondo intero. Poi, a poco a poco, il risveglio. Un risveglio lento, in cui la realtà fatica a fare capolino, ancora immersa in un fumo d’oblio e di inconsapevolezza, con la coscienza lacerata da mille ferite che hanno difficoltà a ricomporre un tutto da cui ripartire: «All’inizio c’è questo lentissimo riaffiorare alla coscienza, sprazzi di luce che per brevi istanti fanno esistere il mondo». Sono sprazzi, barlumi, frammenti che non si possono ricomporre in un tessuto solido e coeso. Lampi di consapevolezza in un cielo oscuro e nebuloso, che illuminano di luce chiarissima qualcosa di profondo, che sfugge a un’intelligenza esatta.
Rosadini è brava a evocare la lentezza di questa progressione, con i suoi guizzi improvvisi, i suoi oblii, i suoi regressi e le sue riprese. E la confusione, il non saper distinguere tra realtà e allucinazione, questo strano mix che desta stupore e preoccupazione, eccitazione e paura: «Sonno abitato da sogni tentacolari e feroci, la magnificenza di una terra rigogliosa popolata da presenze amiche ma incrinata dal riverbero dei bagliori di guerra all’orizzonte, i bambini sono in pericolo, bisogna in qualche modo ritornare…». Già, ritornare. Ritornare da un paese che non si conosce, nel quale ci si è ritrovati all’improvviso senza capire il modo in cui ci si è finiti. Il pensiero va ai bambini, perché anche loro si trovano lì, custoditi nel cuore di chi li ha generati e se li è portati dentro, esposti a un universo ignoto e spaventoso, che li minaccia. I bambini sono il segno della realtà che riviene a galla, una realtà fragile, da proteggere, che tramite i sentimenti che li riguardano rimanda a un io autentico, concreto. Ai bambini è stata affidata la tutela dell’integrità della coscienza, sono entità preziose, i primi che necessariamente occorre salvare, i primi ai quali l’autrice rivolge il proprio pensiero.
Poi, a poco a poco, la realtà riacquista un carattere uniforme, non più interrotto dalle chimere del sogno, e la terra torna a diventare un luogo su cui posare saldamente i piedi, senza timore di sprofondare nelle sabbie mobili del vaneggiamento e della diffidenza: «A poco a poco il giorno si fissa, diventa un continuum di immagini e presenze». La continuità è ciò che consente di sospendere l’incredulità per accordare fiducia alle sensazioni. La continuità è la coscienza, è il tessuto omogeneo della storia sul quale si può tornare ad appoggiarsi.
Anche il tempo ricomincia a essere scandito da avvenimenti reali, che ne delineano una regolarità confortante e al tempo stesso vincolante. Il tempo, questo guardiano incorruttibile dell’esistenza, che dona ritmo e regolarità alle cose, scandisce nuovamente le giornate. È un tempo cadenzato dai controlli ospedalieri, dalle visite dei parenti. Un tempo che appartiene ancora alla malattia, ma pur sempre un tempo, una distesa di attimi che si possono contare, individuati da un prima e da un dopo indiscutibili, una sequenza che dona la certezza di una vita che fluisce, di un’esistenza che rientra nella storia: «vivo, le ore scandite dal monitoraggio cardiaco, nell’attesa del conforto delle visite dei miei familiari». I familiari sono i custodi della normalità, coloro che non solo attestano che il mondo esiste ancora, ma che può avere una dimensione domestica, protettiva. Nulla, come i familiari, può dare un conforto maggiore a chi ritorna alla vita dopo una lunga sospensione nel vuoto. I loro volti, le loro voci, le loro imperfezioni riportano alla mente quelle care abitudini dalle quali la vita torna a germogliare, a mettere radici, a crescere di nuovo forte e rigogliosa.
Ma la strada procede lentamente. Il tempo può tornare a scomparire lasciando spazio alle immense praterie della mente, in cui tutto esiste e tutto non esiste, il prima e il dopo cambiano rapidamente di segno e non ci sono appigli a cui aggrapparsi: «Siamo in viaggio, ancora, l’America un miraggio lontano da cui stiamo tornando, o verso il quale stiamo andando? Il tempo si è contratto in una nuvola opaca, esiste solo lo spazio illimitato della mente». La mente qui ricorda il «brain» o la «mind» di Emily Dickinson, ovvero la parte più vasta e sconosciuta del sé, una dimensione liberata da qualsiasi limite che vincoli o circoscriva le sconfinate potenzialità dell’io. Ma ha una connotazione sinistra, che intimorisce con la sua incommensurabile vastità, evoca spazi irraggiungibili e minacciosi come lontane galassie immense e sconosciute, e ci porta lontano dalle nostre coordinate abituali e confortanti.
Poi, a poco a poco, Giovanna prende consapevolezza di dove si trova. Lei, che è nata a Genova e vive a Milano, si ritrova in Calabria, nel centro S. Anna di Crotone, specializzato proprio nei casi di risveglio dal coma. La localizzazione geografica è un ulteriore passo in avanti nella presa di coscienza di sé. All’inizio fa fatica a crederci, Sembra l’ennesimo scherzo della mente. Chi mi ha portata qui? Così lontano da casa? Come ci sono finita? Ma il riconoscimento del luogo in cui si trova fa compiere alla sua coscienza una zoomata in avanti nelle coordinate dello spaziotempo. L’esterno inizia lentamente a prendere il predominio sull’interiorità, l’ordine comincia a introdurre delle coordinate nella vaghezza, dettando regole implacabili imposte dai meridiani e dai paralleli, dal dialetto meridionale che sente parlare dagli infermieri e dagli inservienti.
Seguono faticose sedute di fisioterapia, piccoli progressi nel compiere i gesti quotidiani. Da un punto di vista fisico, dipende quasi interamente dagli altri, e deve apprendere lentamente la gestualità consueta, riacquisire un’autonomia nell’eseguire le operazioni più elementari, per preservare la propria intimità di donna, per ridiventare da oggetto un essere umano che può mangiare da sola, lavarsi da sola, camminare da sola.
È un percorso durante il quale Giovanna apprende la gratitudine, la riconoscenza per la nuova possibilità che le viene concessa: «Sto imparando la gratitudine per la seconda possibilità che mi è stata data, per la bellezza del mondo che posso attingere anche fra queste mura, la dolcezza delle sere estive in giardino, la luminosità accesa del mare che mi accoglie ogni mattina oltre le finestre della palestra, per la partecipe dedizione dei medici, terapisti ed infermieri, per l’amore che quotidianamente mi testimoniano i miei cari». Riscoprire il mondo è più bello che scoprirlo, perché non è scontato, perché i ricordi che riaffiorano a poco a poco allagano di dolcezza ogni sensazione, la fanno diventare più speciale, sorprendente, rendono consapevoli del meraviglioso mistero dell’esistere, della dolcezza della natura, dell’intensità degli affetti.
È un libro, questo di Rosadini, che, chiunque abbia vissuto una seria esperienza di malattia, anche infinitamente meno drammatica di quella sperimentata dalla poetessa, può capire a pieno. Ma anche chi ha avuto la fortuna di non aver mai vissuto niente di paragonabile può comprendere facilmente. L’autrice è brava a descrivere la propria coscienza lacerata, ma anche le difficoltà fisiche, e il progressivo recupero che l’ha riportata gradualmente a una vita pressoché normale. È un’opera che fa bene leggere per rimettere in ordine le priorità dell’esistenza, per ricordarsi di gustarne la soavità. Ma che aiuta anche a riflettere sul carattere ondivago e precario della coscienza, sull’imprevedibilità della vita, sulla sua caducità.
Seguo la produzione di Giovanna Rosadini da molti anni e, salvo rarissime eccezioni, la sua versificazione è sempre stata caratterizzata da un ritmo evidente e riconoscibile, pur nella discrezionalità del verso libero. Quando parlo delle eccezioni mi riferisco, per esempio, alla terza strofa di «Fossili domestici», in Fioriture capovolte, strofa nella quale, improvvisamente, passa dalla poesia alla prosa con estrema disinvoltura. E lo fa in modo coerente e convincente, senza che appaia una forzatura nell’economia della lirica.
In Un altro tempo, tuttavia, per la prima volta, Rosadini raccoglie una intera serie di brani completamente in prosa (fatta eccezione per una lirica introduttiva e una conclusiva).
Premesso che ritengo piuttosto oziosa una suddivisione in generi troppo rigida, in quanto preferisco stimare un testo in base al suo valore letterario piuttosto che alla sua classificazione critica, devo dire che, personalmente non ho mai creduto nella «poesia in prosa» come ultima frontiera del verso libero in cui cade anche l’ultimo baluardo dell’andare a capo a fine verso. A mio giudizio, la poesia rimane poesia, e la prosa rimane prosa. La poesia è tale perché, a differenza della prosa, è maggiormente caratterizzata dal ritmo, che si ottiene con un uso sapiente di accenti, cesure, a capo, figure retoriche che nella prosa hanno minore o, a volte, nessuna rilevanza.
Non esiste – a mio modo di vedere – un contenuto o uno stile poetico che possa rivestirsi della forma della prosa, e garantire ugualmente la poeticità del testo, pur in assenza di una scansione ritmica che consista anche solamente nell’andare a capo un po’ più spesso. Ma esiste senza dubbio uno sguardo poetico sulle cose, che le percepisce nel loro potere evocativo, nella loro polivalenza, nella loro ambiguità, nella loro capacità di essere se stesse e contemporaneamente molto altro, di valere per una vita singola e irripetibile e allo stesso tempo per tutte le altre vite. Uno sguardo caratterizzato da una sensibilità che nella prosa a volte fa difetto, e che appartiene di diritto al repertorio delle armi poetiche più efficaci e riconosciute.
E non c’è dubbio che Rosadini abbia questo sguardo, lo eserciti in ogni singola pagina del suo libro, ne faccia il punto di forza principale della propria opera. Ed è per questo che un lettore non si scandalizza nel trovare Un altro tempo in una collana di poesia. Un libro, si badi bene, che non è di «poesie in prosa», ma di «prose poetiche».
Di prose di una poeticità assai più elevata di molta altra poesia contemporanea.
Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2025 ha pubblicato per Il Convivio la raccolta poetica Sono il poeta. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.