
di Remo Rapino
Suggestiva e interessante la considerazione con cui Stefano Redaelli, dando parola ad Angelantonio Poloni, apre, nel prologo Fame, il suo Ombra mai più, Neo Edizioni 2022: “Non siamo noi che abbiamo fame di letteratura. È la letteratura che ha fame di noi.” Un incipit che coinvolge chi scrive come chi legge, perché chi scrive, a volte pur senza saperlo, scrive sempre di sé, chi legge ugualmente cerca sempre, in un modo o nell’altro, una parte di sé. Su questa invisibile dialettica di anime si costruisce un ponte e i passi che lo attraversano danno senso a quanto diciamo letteratura, una finzione, un immaginario che aiuta a capire la realtà, a comprenderla finanche per tentare di cambiarla. Leggiamo in quarta: Per tre lunghi anni Angelantonio è stato ospite della struttura psichiatrica CASA DELLE FARFALLE, con sé porta il libro che ha scritto sulla follia standoci dentro, e ora c’è un fuori che lo aspetta, e di cui ci si deve fidare. Nella dialettica dentro/fuori si manifestano due forze, la forza e la fragilità, solo in apparenza oppositive. Ogni pagina, a una lettura profonda, è pervasa dalla ineliminabile relazione Io /Tu (Ich und Du),teorizzata da Martin Buber.
La capacità di specchiare il proprio Io nel Tu-altro consentirebbe la possibilità di riconquistarsi, di tornare ad appartenersi, di accedere alla dimensione di una vita autentica, confermando la reciproca alterità. L’uomo potrebbe anche vivere senza dialogo, ma un Io che ha mai incontrato un Tu non è pienamente un essere umano, anche se chi si addentra nell’universo del dialogo si espone al rischio del rigetto. La soggettività piena si radica nel dialogo ‘Io/Tu, a differenza del monologo che riduce tale relazione a un rapporto strumentale, trasformando il mondo e l’essere umano stesso in oggetto: un processo di reificazione dove l’altro non è incontrato, riconosciuto e nominato come essere al singolare. Non è cosa da poco, specialmente nel tempo in cui si assiste al paradosso di vivere stagioni che vedono maggiormente isolato l’individuo proprio nell’epoca dei rapporti sociali più sviluppati: La società di massa spinge a isolarsi o essere isolati.
All’interno di questa scena si muove Poloni Angelantonio e, con lui, tutti i personaggi, o le ombre, che s’incontrano nello snodarsi della storia, in giorni che coinvolgono e lasciano segni: i genitori, Rami, i ragazzi dei motorini, Claudio il barista, il libraio, l’editore, la dottoressa, Marta e gli altri ospiti della Casa delle farfalle. Anche il platano è un essere vivente con cui relazionarsi nella inquietante ricerca del senso del vivere. Ognuno con la sia ombra, ognuno con i suoi barlumi di luce. Tra ombre e luci sembra che tutti siano uguali, ma qualcuno è più uguale, o meno uguale degli altri. Diversità o meglio alterità? Il rapporto con l’altro è stato preso in discussione tante volte nella letteratura. Storie quotidiane, spesso ispirate ai fatti di cronaca, grandi classici della letteratura che ci hanno insegnato a superare le barriere mentali. Storie che, senza demagogia e senza retorica, ci hanno aiutato a gettare un ponte verso l’altro a scoprire il pregio di cogliere la bellezza della diversità e dell’inclusione: raccontare l’alterità è il primo passo dell’includere. In matematica, del resto, è detta inclusione la relazione tra due insiemi quando ogni elemento di un insieme fa parte dell’altro. Il libro di Stefanio Redaelli è un gesto, e non esiste gesto più bello di quello di chinarsi per aiutare a rialzarsi chi è caduto. Stefano lo fa con competenza, con un tatto che si veste di poesia.
Il suo racconto sulla follia, sulla salvezza, sulle rimozioni, sul coraggio di tentare l’impossibile, rimanda al canto d’anima di Jacques Brel: l’impossibile non esiste, esistono solo le cose difficili, bisogna attaccarle e conquistarle (La dernière chanson). Leggendo si conquista una consapevolezza: i matti sono, spesso, tutti gli altri, quelli che si fermano alle apparenze, e che, al termine, la follia, ogni forma di follia, va vista come una imprevedibile emissione di energia, spesso incontrollabile, ma soprattutto sovversiva dei codici sociali dominanti, delle presunte verità. I matti non mentono mai, ci vedono, sono nudi, già scriveva, e non casualmente, Redaelli in Beati gli inquieti, Neo Edizioni, 2021. Ma anche altro si intravede: comprendere che altri mondi respirano al di là della materia, che l’essere sussiste oltre i falsi ornamenti (kallopismata) del solo avere: il successo, la ricchezza, l’egoismo le guerre, la distruzione della natura. La trama del libro riordina, riannoda, ricuce e inventa costruzioni e metafore, dove si raffigurano i profili del dramma, degli altri ma anche il proprio, con quella levità che consente la narrazione del dolore nelle sue articolazioni, fornendo visibilità e parole a sentimenti e ferite, scarnendo apparenze.
Questa prassi non mira a proporre soluzioni, aggiustamenti, facili consolazioni, tantomeno negazioni e travestimenti della sofferenza, bensì, al contrario, permette, attraverso la parola, di esprimere, nominare, e perfino decifrare le pieghe, le fragili faglie delle profonde sfumature del dolore, quindi dell’essere nel mondo. Qui si staglia la bellezza della scrittura: raccontare l’inenarrabile, offrendo espressione a ciò che altri strumenti e registri comunicativi non sempre hanno il coraggio o la possibilità di raccontare. Chi scrive, Stefano in questo caso, affronta un arduo tratturo, l’interminabile percorso dei “cercatori d’anima” e si fa “tracciatore” di parole, eroe senza lapide che mai si avventura in terre che non siano dell’uomo, matto o normale che sia. La letteratura ha un senso in più se raccoglie le vite espresse in normali anomalie, se fa esistere le loro voci. Voci che vanno a rimbalzare per strade e piazze, si fermano sotto le nostre finestre fino ad entrare nelle nostre comode case e, in silenzio, ci tengono svegli. In tali perimetri deve avere residenza la scrittura letteraria.
A suo modo scrivere è una forma di esistenza, che richiede l’accettazione dell’altro e il ripensamento di devianti e stantie contrapposte categorie: normalità/devianza, sano/malato, normale/matto, cittadino/straniero, regolare/irregolare, abile/disabile, parole disperse in un vocabolario di larghissimo consumo, eppure ritenute necessarie per darci una presunta sicurezza in un presunto ordine del mondo. Che non è l’unico. Occorre inventare altre favole per rendere più comprensibili e chiare le infinite sfumature della realtà. Altre letture della mente, porre al centro i modelli di fragilità esistenziale, di vite diversamente vissute, di quanti sono, anche al di là della propria coscienza testimoni e antagonisti della dimensione storico-socio-culturale dominante, delle sue sua trasformazioni, tra realtà e finzione, tra storia e controstoria. La scrittura deve farsi ascolto. E’ quanto accade in Ombra mai più di Stefano Redaelli: da leggere e, ripensandosi, prendendo fiato, rileggere.
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