
“La mia patria era la mia infanzia. Crescendo me ne allontanai, e più me ne allontanavo più cresceva dentro di me”, scrive Burhan Sönmez ne Gli innocenti (trad. Eda Ozbakay, Del Vecchio, 2014). Leggere oggi il suo romanzo d’esordio, Nord, uscito originariamente nel 2009 e proposto oggi da Nottetempo con la traduzione di Nicola Verderame, permette di assegnare l’origine e osservare l’evoluzione del tema portante della sua intera produzione letteraria: il significato di patria. Il vincolo delle radici e la necessità di riappacificarsi con il proprio passato conducono l’autore a rendere letteratura la storia di un impegno e di una ricerca dolorosa e necessaria.
Originario di Haymana, Sönmez è stato rifugiato politico in Inghilterra per dieci anni. Avvocato specializzato in diritti umani e docente all’Università Metu di Ankara, è tra le voci di maggior rilievo nella scena contemporanea.
Ogni sua storia appare legata in maniera inesorabile alla nostalgia dei luoghi, al dolore dell’esilio. L’ignoto diventa il metro per misurare il peso del vivere in relazione alla memoria, per spingersi, con Labirinto (trad. Nicola Verderame, Nottetempo, 2019), a immaginare un modo per annullare il dolore a partire dalla cancellazione del ricordo della propria esistenza. Sönmez ama costruire microstorie che assumono una valenza collettiva nel contribuire a riscrivere il passato di un luogo. Un’impostazione che caratterizza in particolare Istanbul Istanbul (trad. Anna Valerio, Nottetempo, 2016) e che l’autore aveva già dimostrato di prediligere nella prima opera.
Conoscersi è morire, scriveva Pirandello ne La carriola (Novelle per un anno, Candelora, 1928). Il dramma che in Nord si annuncia sin dalle prime pagine si basa su tale assunto: l’impossibilità di vedere e al contempo vivere la propria forma. Se lo chiede Rinda di fronte al cadavere di suo padre Aslem. Si specchia in lui e percepisce la propria incompletezza in quell’identità dimenticata. Aslem aveva abbandonato il villaggio vent’anni prima, attratto da un luogo senza sole da cui si può tornare solo sotto forma di vento nero. La sua anima, ne è convinta sua moglie Yumati, si è spinta sino alla luna.
Lo stupore e lo straniamento vissuti dal figlio Rinda nel riconoscere i propri tratti nel volto di quello sconosciuto sconvolgerà l’equilibrio raggiunto nel convivere con quel vuoto. L’assenza diventa qui lo spazio per dare forma a un’indagine mossa a partire dalla necessità di capire le ragioni di chi lascia la famiglia per cercare il proprio nord. Quel segreto inconoscibile trasportato dal vento si instilla nei pensieri del giovane destinato a subire un mutamento radicale nel pellegrinaggio alla ricerca delle ragioni di un padre e, al contempo, delle proprie, nel tempo di un’esplorazione apparentemente senza una direzione precisa.
In un gioco di continui disvelamenti, tutto pare capovolgersi nell’avanzare: la destinazione di Safali, le riunioni dei sapienti, la missione contro le ingiustizie in una eterna guerra contro i Merani perseguita dalle donne Şahmaran, custodi di una lingua dimenticata tramandata sul ramo femminile.
Sono gli incontri con figure che paiono aderire a un passato congelato a costellare di segnali l’esperienza compiuta da chi arriva persino a dubitare della propria identità nella fusione con l’altro. Incontrerà un viandante in cerca del cimitero delle ombre per portare la propria, morta, custodita in una cassa. È un saggio che da oltre un decennio staziona sotto un ciliegio, avrebbe potuto scegliere un albero più imponente per godere della sua ombra, ma non voleva privarsi della vista di quei fiori che con la loro bellezza continuano ad alleviare il suo dolore. Insegnerà a Rinda il valore del dubbio come uno dei passaggi in grado di trasformare in modo irreversibile l’esistenza. Si troverà con il Venditore a raccogliere sogni nel Nord, ascolterà le parole del Confidente, e proverà a tracciare una via verso un destino condiviso: il significato di quel viaggio come possibilità di riconoscere la propria appartenenza al nord.
Ogni cosa è lo specchio di un’altra. Se non riuscite a vedere nello specchio una luce, sarà per la vostra assenza.
L’esplorazione dei luoghi si fonde con le storie e le leggende della tradizione curda: un crescendo che genera un sottile smarrimento nel rendere labili i confini del reale e del sogno nel passo epico assegnato alla narrazione. Ogni dettaglio si fa portatore di un significato ulteriore, dal cavallo pezzato apparso dal nulla, al monile nascosto nella bocca di Aslem, alle tracce di un cervo, agli innumerevoli incontri sulla strada di Rinda. Ma invece di allinearsi a una tradizionale trasmissione orale dei saperi dove sono i padri a guidare i figli alla scoperta di quel che si cela dietro la storia e il mito, qui sono l’estraneo e l’ignoto a rivelarsi determinanti nel cammino di conoscenza del protagonista.
Sönmez forgia un nuovo immaginario a partire dalla costruzione di un’identità attraverso un ritorno alle origini. Un’evoluzione e una crescita che possono compiersi solo grazie alle innumerevoli voci, alle insidie, alla polifonia di narrazioni esterne alla sfera del conosciuto.
Come i danzatori delle stelle immaginati da Sergio Atzeni, i volti che si avvicendano sulla pagina interrogano il cielo, interpretano segnali e anomalie nell’apparente immutabilità del paesaggio intorno.
Sönmez sovrappone costumi e tradizioni a leggende costantemente rinnovate per tratteggiare una visione nuova di luoghi che paiono estranei al cambiamento. Ogni vicenda trova una traduzione nella narrazione orale che ridefinisce una storia millenaria tra mito e leggenda, suggestioni magiche, racconti favolosi e una singolare visione del tempo che assomma attese, auspici e deliri.
Non conoscevamo altra erba medicinale che curasse il dolore della perdita se non il tempo. E ciò che chiamavamo tempo era un’erba che cresceva in luoghi irraggiungibili.
La rivendicazione di un’indefinitezza, oltre a contribuire a rendere sfocati i contorni spaziali e i limiti temporali, attesta una libertà espressiva che si regge su una personale combinazione di codici e motivi della tradizione popolare narrativa e poetica. Tra immagini di ombre che incarnano i sensi e corpi la ragione, sono le allegorie, le metafore, le allucinazioni create per assegnare un significato a accadimenti minimi a rivelare un senso nella disarmonia. Sönmez compone un mosaico in prosa che riluce grazie all’apparente frammentarietà delle storie innestate alla principale, necessarie per consegnare una parabola sullo sradicamento.
Ogni incontro si fa portatore di una parola da salvare sulla via: la ricerca del vero, l’abbaglio generato dalle sensazioni, il contrasto rispetto alla ragione, il peso della sua forza esterna.
Cos’è la verità? È qualcosa che si può trovare? È questo che mi domando.
La prosa rivela la cura estrema nei confronti della parola esatta, gli accenti lirici cadenzano riflessioni sulla dissoluzione, sul ruolo dell’individuo nel seminare cambiamenti. Sönmez intona un canto della solitudine, elogia il dubbio come strumento per identificare una personale via verso la comprensione delle cose del mondo. Il miraggio e il disincanto si avvicendano sulla pagina, nella costante percezione di aver perso ogni riferimento del tempo, dello spazio e della realtà, con la prospettiva plausibile di essere parte di un vaneggiamento altrui, vero enigma su cui si regge l’intera narrazione.
Vuoi dire che la nostra vita non è nient’altro che il sogno di una volpe bianca?
Il lettore diventa parte della malia vissuta dal protagonista, al punto da intuire l’impossibilità di una rivelazione. Ad assegnare una sospensione e enfatizzare l’incertezza il cambio di registro e di persona, che sposta l’attenzione sull’illusione condivisa che domina il romanzo, centrale non solo per districarsi nel groviglio di storie e interrogativi, ma per scorgere la visione che travalica il mero evolversi degli eventi.
Coloro che sospettano che se morissi nel sogno tornerei all’altra mia vita, sono convinti che le loro vite siano più sensate di un sogno. Per loro la vita è destinata a restare, mentre il sogno è effimero. Ma affibbiare una valenza eterna a una vita che di fronte alla morte non ha scampo, non è un’altra forma di cecità?
Sönmez usa la morte, le domande sulla condizione che precede la nascita, per interrogarsi sulle gabbie che l’individuo costruisce per sé e da cui non riesce a evadere, a partire dalla presunzione della propria importanza sino all’indifferenza al presente. In tale raffigurazione a generare un ulteriore smarrimento è l’incapacità di comprendere se l’esperienza del dolore vissuta dal protagonista appartenga alla realtà o al sogno. La paura della morte si traduce allora nel timore del fallimento che il protagonista – e per estensione il genere umano – cerca di scongiurare, nel tentativo di riabilitare i padri dalle macerie.
La prosa si plasma sulle visioni allestite sulla pagina, si dilata con indugi descrittivi per immortalare culture, tradizioni e inventari propri di una terra, e si contrae, vorticosa e claustrofobica, nell’abbozzo della violenza, dell’agonia, del senso della debolezza umana in relazione alla perdita della speranza. Pagine memorabili tratteggiano il significato di chi perde ogni riferimento e diventa inconsapevole persino del proprio dolore, per arrivare a confrontarsi con il proprio aguzzino sulla coesistenza della violenza nella vita, sulla supremazia dell’angoscia rispetto alla paura, sull’impossibilità di superare l’ansia dell’esistere. Dopo il dubbio, la fame, è la paura ad annunciarsi come uno dei passaggi che trasformano radicalmente l’esistenza.
Il mistero della vita di un uomo, destinato forse a permanere tale, si accompagna a fughe, guerre, uccisioni, amori, rimorsi, sensi di colpa e promesse da onorare. Al lettore non rimane che abbandonarsi a quell’intrico che trova nella parola la sola vera salvezza possibile. Quella delle donne che in essa avevano forgiato verità celandole all’interno delle fiabe sulla felicità e sulla giustizia, per scongiurare la dispersione.
La verità non è una sola, e non è per nulla assoluta. Le donne lo intuiscono comunque, e questo le ispira nella vita. Se credessimo in una sola realtà, non continueremmo a raccontare le fiabe, a tenere uno specchio davanti ai cuori dei nostri figli.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.