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“Parlo in nome della mia differenza/ Difendo ciò che sono/ E non sono poi così strano/ Mi fa schifo l’ingiustizia/ E non mi fido di questa cueca democratica/ Ma non parlatemi di proletariato/ Perché essere povero e frocio è peggio/ Bisogna essere acidi per sopportarlo/ È girare alla larga dai machos dell’angolo/ È un padre che ti odia/ Perché il figlio è dell’altra sponda/ È avere una madre con le mani spaccate dal cloro/ Invecchiate di pulizie/ Che ti cullano ammalato/ Per cattive abitudini/ Per cattiva sorte/ Come la dittatura”.

Con tacchi alti e falce e martello disegnati sul viso Pedro Lemebel irrompe alla riunione dei gruppi contrari alla dittatura di Augusto Pinochet a Santiago del Cile per attaccare, con il suo poema manifesto, la tendenza omofobica della politica di sinistra. È il 1986. Quella voce rivoluzionaria originaria di in un borgo povero sulle sponde dello Zanjón de la Aguada è già ritenuta tra le più complesse del panorama culturale cileno.

Ogni sua azione è politica. Protagonista della scena artistica cilena dai tempi della fondazione de Las Yeguas del Apocalipsis con Francisco Casas, diventa l’emblema della liberazione sessuale.

Sono i primi anni Ottanta quando si avvicina alla scrittura. Nel suo primo libro, Irraccontabili, si firma ancora Pedro Mardones. Pagine furenti composte dall’allora sconosciuto professore di Storia dell’arte che dopo aver frequentato il laboratorio di Pia Barros pubblicherà i primi racconti in un’edizione da circa trecento esemplari in una scatolina con trittici illustrati su carta kraft venduti nel barrio Bellavista (usciranno in Italia solo nel 2020 grazie a Edicola edizioni). La scelta di cambiare il suo cognome acquisendo quello materno marca la sua consapevolezza identitaria.

Si inizia ben presto a parlare di lui. Diventano memorabili i provocatori atti di protesta, le eccentriche incursioni durante i dibattiti pubblici, i sabotaggi di mostre d’arte, le installazioni video e fotografiche, le performance artistiche estreme e le cronache urbane. La sua feroce critica delle disuguaglianze sociali è un attacco frontale all’autoritarismo: una denuncia del conformismo che corrode il mondo politico, intellettuale e ecclesiastico cileno.

Lemebel ritrae sé stesso, usa il suo corpo per renderlo manifesto poetico, usa la scrittura per ispezionare quel che si cela dietro la parvenza del vero durante e dopo la dittatura in quel Cile di rappresentanza. Negli anni Novanta si interroga attraverso cronache apparse su diverse testate sullo stato dell’emarginazione a Santiago in rapporto ai fenomeni di prostituzione, alla povertà dilagante, alla discriminazione degli omosessuali, rompendo un silenzio atavico. La sua voce risuona potente con Cancionero, settanta cronache scritte per il programma Radio Tierra e pubblicate poi nel 1998 per ricucire la memoria recente e analizzare i tentativi di trasformazione davanti a un’idea fallace di democrazia. Rimaste inedite sino al 2019 vedranno la luce come Di perle e cicatrici, Edicola Edizioni. Sarà il suo secondo libro, Folle affanno, uscito originariamente nel 1996 e finalmente pubblicato in Italia (trad. Silvia Falorni, Edicola Edizioni, 2022) a permettergli di travalicare i confini nazionali. Un’attenzione crescente ottenuta con l’uscita dei romanzi Ho paura, torero e Baciami ancora, forestiero e del libro di cronache Parlami d’amore, (Marcos y Marcos) che permetteranno anche al pubblico italiano di scoprire il saggista, cronista e romanziere cileno.

Scoprire oggi Folle affanno permette di calarsi nello sguardo di un intellettuale interessato a ritrarre una società che alimenta le proprie anomalie e che si rivela incapace di fare i conti con la propria memoria. Elegge la forma breve come misura dell’odio per ispezionare un’ipocrisia radicata, condizionata da un moralismo di impronta cattolica e foraggiata da una classe intellettuale asfittica e indifferente ai quotidiani orrori. Il passo epico assegnato al reale fa brillare le locas nella costellazione di prostituzione travesti, racconta la miracolosa trasformazione di genere di un santo bambino votato a curare gli infermi, restituisce immagini dal ghetto omosessuale di chi si ubriaca di pisco per non sentire il dolore nell’iniettarsi il silicone per strada. Immortala valchirie mutilate e orgogliose, ammanta di compassione il ritratto della misera emulatrice platinata di Madonna consumata tra pareti sporche di sangue e umidità. Traccia nel miraggio del mito l’infrangersi di un sogno condiviso sotto l’ombra sieropositiva.

Il tragicomico lambisce il grottesco nel descrivere la percezione di una sconfitta collettiva per fomentare ingiustizie dietro il pretesto della solidarietà delle celebrità, in un pietismo vacuo.

Di particolare rilievo l’impostazione ibrida – un amalgama di biografia, giornalismo culturale e prosa poetica – e l’aspetto linguistico, con definizioni intatte per non alterare le suggestioni musicali evocate da alcune espressioni gergali e dagli impasti sporchi latinoamericani. Pagine sferzanti che racchiudono una dolente invocazione all’indipendenza di pensiero, all’emancipazione sessuale. L’atto poetico-politico di Lemebel è in continua evoluzione, cambia forma per veicolare con forza immagini simbolo attraverso l’ispezione narrativa che compie costanti ingrandimenti sul contrasto all’imperialismo economico, l’analisi della questione indigena e la muta repressione delle differenze. Uno sguardo acuto che osserva gli esiti della dittatura nel condizionamento delle masse, “la metamorfosi dell’omosessualità di fine secolo” in relazione al modello imperante.

Non rinuncia mai a una vena comica, individuata come strategia per esasperare il reale e sfiorare l’assurdo nell’allestimento di un paesaggio urbano che si fa specchio di un’epoca e dei suoi abbagli.

Così, le immagini di un corteo funebre per la morte di una prostituta travesti venticinquenne si fondono con le vicissitudini storico-politiche cilene.

La Chumilou morì lo stesso giorno in cui arrivò la democrazia, il misero corteo si incrociò con le marce che festeggiavano il trionfo del NO sull’Alameda. Fu difficile attraversare quella folla di giovani con i volti dipinti che innalzavano le bandiere arcobaleno, gridando, cantando euforici, abbracciando le locas che partecipavano al funerale. E per un attimo si confusero il dolore con l’allegria, la tristezza con la baldoria.

Al centro dell’opera il dilagare dell’hiv e la perversione delle campagne di prevenzione, il business di operazioni di facciata che si risolvono in gadget da bancarella, sfilate di moda di beneficenza, sostegno di celebrità e tributi musicali post mortem. E quando sono i vestiti a raccontare la malattia, gli oggetti esibiscono la lacerazione dell’assenza, come l’Aids Memorial Quilt che rende tangibile il modo in cui “la perdita si maschera coi frammenti che hanno accolto l’esistenza”.

Analizza i cambiamenti sociali anche nel tributare i morti per aids, dalla finta indifferenza anni Ottanta agli indimenticabili addii dallo “splendore momentaneo” del decennio successivo. Un cambiamento di classe e di categoria che genera un rovesciamento, la trasformazione in allegoria della compassione generata dal pregiudizio di una colpa originaria legata all’orientamento sessuale.

La denuncia di Lemebel investe ogni ambito culturale e sociale, rivendica la propria individualità nel descrivere esperienze dagli esiti sconcertanti, come la partecipazione del 1994 allo Stonewall di New York, festival dell’orgoglio LGBT, per descriverne le contraddizioni interne che perpetuano disuguaglianze e scorgere le storture nell’esaltazione fanatica di modelli e riferimenti inattuali.

Allora come non versare una lacrima in quella grotta di Lourdes gay, che è come un altare sacro per le migliaia di visitatori che si tolgono il berretto Calvin Klein e pregano rispettosamente per qualche secondo mentre sfilano di fronte al locale. Come non fingere almeno un po’ di tristezza se sei in visita a New York e ti stanno sfamando coprendoti tutte le spese queste gringas militanti, così beate e commercianti della propria storia politica.

Aspetto cruciale delle sue riflessioni mostrare le diverse facce delle battaglie per i diritti, tra frane ideologiche, misture di cadaveri e sogni “che giacciono sotto le impalcature della piramide neoliberale”, venti di fuga utopistica e senso di estraneità all’onda sessantottina per il vincolo quotidiano della segregazione delle minoranze.

Perché la rivoluzione sessuale, oggi incorniciata di nuovo nello status conservatore, è stata eiaculazione precoce in questi vicoli del Terzo Mondo e la paranoia sieropositiva ha buttato all’aria tutti gli sforzi dell’emancipazione omosessuale. Quel folle affanno di rivendicazione di un movimento politico che non è mai esistito, che è rimasto intrappolato tra le garze della precauzione e l’economia dei gesti dedicati ai malati.

Tra accenti lirici inattesi, indugi descrittivi, raffigurazioni nitide di odori, sapori, confusione di piume e preservativi, Folle affanno radiografa la ferocia della sopravvivenza che diventa incanto. Si interroga sul significato della virilità nella concezione comune, sulla necessità di ambiguità per essere fedeli al reale. L’attenzione estrema per la parola onesta forgia una nostalgia dolente nei miraggi notturni di un postribolo urbano, nella poesia di un marciapiede tropicale.

Un dolente elogio del margine che scorge la bellezza tra i volti sfigurati di emarginati che vivono di espedienti, mascherati in un triste e perenne carnevale, consapevoli di avere solo il presente e capaci di sprigionare un’esuberanza primordiale, una genuina e eccentrica morale che li rende assoluti, imperituri nel ricordo, martiri del morbo. Figure che compongono un bizzarro catalogo umano rendendo quelle voci un unico coro, dalla loca rapitrice di neonati che si appropria dell’identità di una morta, alle meteore della canzone popolare latina. Quell’accumulo caotico di degrado e miseria umana rivela un suo ordine interno nel far convivere la presa diretta sulla marginalità e la sua traduzione poetica, nel costante alterco tra dramma e ironia, nella sotterranea consapevolezza di un comune destino di fallimento. Sfuma a sua volta tra quei volti narrati Pedro Lemebel, mostrando nel documentario che gli dedica Johanna Reposi, la tenera e totale adesione di vissuto, arte e ideologia in chi, sino a pochi anni prima della morte, continuerà a raccontare un disagio sociale dilagante nel silenzio delle istituzioni. Il rilievo della nuova valorizzazione dell’intera opera letteraria di Pedro Lemebel risiede nell’opportunità di riconoscere l’attualità del pensiero di un intellettuale che sino allo stremo delle sue forze perseguirà il racconto del reale per nutrire la propria sovversione.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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