«Quando si addormentò, il dinosauro se n’era già andato».

Trecentosessantacinque giorni, più uno, così che i bisestili non si offendano, non si sentano esclusi. Per ogni giorno una storia, un racconto, un pensiero, un ragionamento, uno spunto, uno sguardo buttato oltre la finestra. Per ogni giorno la lampada che rimane accesa qualche minuto in più; che rimane accesa il tempo necessario. Ogni storia non va a esaurirsi nell’altra ma gioca di sponda, rimbalza, richiama, domanda, risponde. La pagina chiude nel tempo da calendario, nella data del giorno. 2 marzo, 23 aprile, 9 settembre, 6 gennaio. Il tempo che ci concedono i racconti giornalieri, però, non scade, non si consuma, si aggiunge e dilata il tempo più importante, quello che ci rimane. Il tempo che ci rimane, come un bellissimo film del 2009, del regista palestinese Elia Suleiman. Quattro episodi, quattro periodi, un film sui ricordi, sullo smarrimento, sul perdersi e ritrovare all’indietro qualcosa di sé, un film sul ritorno. A quel film ho pensato più volte leggendo il bel libro di Dario De Maro, Novelle per un anno (Wojtek, 2024), la mente è andata agilmente alle immagini girate da Suleiman e, successivamente, a qualche racconto di Donald Barthelme, prima ancora di collegarsi a quanto dichiarato già in seconda di copertina, ovvero al progetto di scrivere un racconto per ogni giorno dell’anno che Luigi Pirandello non riuscì a portare a termine.

E fu così che un po’ alla volta, ci riabituammo a usare le mani.

La prima differenza con l’idea di Pirandello è temporale, naturalmente, ma soprattutto è d’impianto e, successivamente di forma. Pirandello si proponeva di scrivere le novelle slegate l’una dall’altra, ognuna doveva avere un inizio e una fine in quella giornata, non avrebbero dovuto rimandare (almeno idealmente) a un altro racconto di un’altra data. De Marco, invece, il collegamento, lo vuole, lo pensa, lo studia; perciò, – come detto all’inizio – i racconti, brevi o brevissimi, scivolano o rimbalzano dentro altri, a volte per un suono, per un nome, per un omaggio, per un chiaroscuro, per visione, per lessico. E veniamo alla forma. Dario De Marco, ha sempre sperimentato e – all’interno dell’esperimento – non ha mai trascurato la dimensione del gioco, basti pensare a un suo libro di qualche anno fa, Storie che si biforcano, dove alla fine di ogni racconto il lettore incappava in due frecce, una invitava a girare il libro al contrario in modo da leggere subito una versione diversa della storia appena letta, l’altra incoraggiava a proseguire in maniera lineare.

La forma che insegue De Marco si scioglie in tante piccole varianti, si frantuma, in storie piccolissime di una riga sola, in altre che suonano come poesie senza la pretesa di esserlo, altre ancora che sono cristallizzate in una sequenza di gesti, di azioni. E poi piccole favole, dialoghi, storie talmente minuscole che una lettura superficiale le potrebbe classificare come aforismi, battute, pensieri da social network. Invece no, sono sempre racconti, parole che guizzano come gnomi saltellanti, come fatine nella notte, come bambine che ascoltano il papà che legge loro una fiaba.

(Poi c’è un altro cono d’ombra, quello definitivo, in cui io potrei avere età che tu non hai mai avuto, ma non è detto, non è detto.).

Intendiamoci, la forma aforisma, lo studio del linguaggio del social network, l’utilizzo della battuta, dello slogan sono cose da cui l’autore prende, ma lo fa come si prende da un libro di grammatica, da un manuale di linguistica, come quando si apre una finestra per vedere in quell’esatto momento la luce fuori che sta combinando.

La realtà va osservata ma poi va rielaborata attraverso la tecnica della narrativa che consente all’autore di scrivere come si senta in un dato giorno e poi rimandarci a Cortázar, a Borges, a Charms, ad Atwood ma soprattutto ad Aristide Maselli, che non conosciamo, che forse non esiste e perciò esiste e che non dimenticheremo.

Caro Dario, mi chiamo Clotilde, e non mi ricordo neanche più come mi chiamo.

Alcune giornate di questo libro. Il 9 gennaio leggeremo di Ziggy. Il 21 aprile di una fregatura. Il 13 luglio incapperemo in Bunuel e il giorno dopo nell’ipnosi. Il 19 settembre, che crediamo o meno, ci squaglieremo con e come il sangue di San Gennaro. Il 29 settembre traditori e galli. Il 24 novembre ascolteremo un blues. E poi fotografie, fumetti, grassetti, corsivi, spigolatrici di Capri. Un sacco di aria buona.

Il libro di De Marco è moderno, tecnologico, rapido, è figlio dei nostri tempi e modi; poi però immaginiamo sia stato scritto a mano (e l’autore lo conferma in un’intervista), giorno dopo giorno, proprio per risalire al gesto da cui tutto comincia: oggi è lunedì, mi siedo al tavolo e scrivo, domani è martedì mi ci siedo di nuovo, oggi è Natale ma scrivo lo stesso. Poi tutto si fa libro e noi, pigri o meno, fantasiosi o meno, leggiamo.

 

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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