
Con E tutt’intorno il mare (trad. Camilla Diez, alter ego) Dominique Fortier costruisce storie per contrastare l’oblio, si accorda a quanto sostenuto da Sonali Deraniyagala a proposito della concezione della scrittura come un’agonia più sopportabile rispetto all’esperimento dell’omissione. La costante tensione al rispecchiamento nella sua vicenda personale favorisce l’identificazione con le vicissitudini di sopravvissuti alla perdita e innesca interrogativi sul ruolo e sul peso del compromesso. Le immagini che compone a partire dalle suggestioni evocate dall’impatto con Mont Saint-Michel a venticinque anni di distanza dalla prima visita annunciano l’intento di salvare reperti del passato amalgamandoli all’immaginazione. Un’inquietudine sottile traduce il timore del mancato riconoscimento di un luogo rispetto alla deformazione dell’illusione infantile.
Le numerose giustapposizioni di stili architettonici diversi, che caratterizzarono i grandi mutamenti dell’abbazia benedettina edificata nel X secolo, affascinano notevolmente Fortier, la portano a immaginare una stirpe comune, responsabile dei cambiamenti apportati nel corso dei secoli. L’impostazione formale del romanzo rivela tale influenza nella scelta di assegnare alla ricerca storica un passo narrativo marcato da continui sconfinamenti temporali.
Prende forma un’opera concepita come una stratificazione di storie, silenzi, dolori, rinunce, voti, resa nell’alternanza di piani in una sottile sospensione. Sovrapposizioni ispirate dalla collocazione dell’abbazia che cela la volontà, condivisa con altri luoghi di riparo spirituale costruiti in luoghi isolati o scoscesi, di assegnare un’ulteriore valenza simbolica al viaggio per arrivarci. Quel monte che due volte al giorno diventa isola ricorda a chi lo osserva la natura effimera e fragile di ogni legame.
La struttura del romanzo, l’alternanza di registri diversi e il continuo cambio di prospettiva generano interrogativi sul senso della libertà, la sua ricerca e la sua privazione. Fortier indaga l’esigenza di isolamento sperimentata nel cercare rifugio nella scrittura. Assegna un doppio sguardo alla narrazione per interrogarsi sull’oblio come possibilità per scongiurare l’annientamento. Una necessità di ridefinizione condivisa con il suo protagonista Èloi, un pittore quattrocentesco che finisce in monastero per l’incapacità di dare un senso alla sua esistenza a seguito della perdita della persona amata. La condanna di essere vivo si ripete al risveglio: il momento pietoso che anticipa il sorgere del sole rinnova ogni giorno, con la veglia, la consapevolezza del vuoto. Una sottile rassegnazione pervade chi in fondo sente di dover identificare una colpa personale e concepire in quel tormento un castigo legato all’espressione della propria arte.
Forse sono stato punito per aver voluto rappresentare la vita – peccato di idolatria sommato al peccato d’orgoglio.
Il suo dolore inestinguibile lo porta a cercare un nuovo riferimento vivendo come un asceta per ripulirsi da ogni eccesso e conformarsi ai ritmi di preghiera e alle pratiche quotidiane della vita monastica, tra uomini con “mani secche, pelle grigia, occhi freddi” che “a forza di vivere tra queste vecchie pietre hanno cominciato ad assomigliargli”.
La prosa ricalca i passi incerti del protagonista, ne traduce la malinconia. L’andirivieni temporale traccia i pensieri, le inquietudini, le scoperte e i tormenti che si consumarono nei secoli tra quelle mura. La biblioteca diventa metafora dell’incapacità condivisa di riconoscere e preservare i reali patrimoni culturali e umani. La sorte delle sue opere dal valore inestimabile sembra interessare solo a uno sparuto numero di monaci che nell’indifferenza generale consacrano la loro esistenza a un’idea di cura.
Fortier ispeziona la fragilità della natura umana intessendo storie di esistenze interrotte, segnate inesorabilmente dalla perdita, smarrite, che trovano riparo nel sacrificio, nell’elogio del distacco.
I dettagli si fanno portatori di presagi che paiono inesorabili, come l’immagine di un’ombra e la percezione di danzare con la propria morte. Il tratteggio di una solitudine latente invade ogni cosa: accomuna le due voci del romanzo, assegna tonalità nuove alle descrizioni tra apparizioni che rendono ineffabile il confine con le ossessioni notturne e generano immagini mostruose, provenienti da terre sconosciute e da epoche remote. Tra continui inabissamenti e emersioni nella memoria e nella storia, gli accenti lirici definiscono il rimpianto.
Le vicende minime del quotidiano, i rituali domestici evocano la stessa sotterranea malinconia dell’incompiuto. Gli appunti autobiografici, i frammenti, gli abbozzi lirici che la scrittrice compone nelle fugaci evasioni dal presente simboleggiano il tentativo di esularsi dal tempo e dedicarsi alla cura nei confronti della parola esatta, onesta. Prove che però si rivelano imperfette, l’emblema il taccuino che non riuscirà a preservare dall’acqua durante un temporale improvviso. I suoi versi diventeranno monchi, parole a metà annegate nella pioggia.
Come sottolinea Rudiger Safranski nel suo saggio Il tempo (trad. Elisa Leonzio, Keller), il continuo desiderio di nuovi inizi accomuna chiunque, anche nella scelta di abbandonare la scrittura, come accadde a Rimbaud con la poesia. Nel chiedersi quale sia il mezzo per arrivare a un nuovo inizio, Safranski identifica l’oblio come unica possibilità. “Dimenticare è l’arte di trovare inizi là dove in realtà non ce ne sono”.
Gli interrogativi sul tempo e sulla mancata consapevolezza di essere parte integrante di un’epoca si traducono in Fortier nella necessità di usare la scrittura non per far “risorgere gargouille e scalpellini” ma per dimenticare il mondo noto. Aspetto indagato anzitutto nella dimensione linguistica che diventa lo spazio per sperimentare smarrimenti e recuperi. La sua ricerca etimologica investe anche le analogie semantiche e sonore di voci che diventano rimandi nascosti nel testo, risale all’origine e al significato di parole-tema di cui traccia la vicenda culturale. Un’esplorazione che manifesta l’urgenza di scoperta e reinvenzione del linguaggio per costruire visioni nuove: “Offriamo sempre e soltanto ciò che ci manca”.
Con E tutt’intorno il mare Fortier consegna un’opera imperniata sulla relazione originaria con il passato, definito come “la roccia su cui sono edificate le nostre case e l’inchiostro con cui scriviamo i nostri libri”. E se pare impossibile emanciparsi dai suoi dolorosi reperti, risulta necessario assegnare un’identità a quelle immagini spettrali, generare dall’osservazione il nuovo inizio evocato da Safranski.
Per comprendere il passato guardavo naturalmente indietro, quando invece avrei dovuto volgere gli occhi (i miei, i loro) in avanti.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.