Una quiete apparente sovrasta un luogo appartato e selvaggio a pochi chilometri da P.. È il preludio al dramma che investe esistenze ordinarie, improvvisamente trasfigurate. La sensazione dell’imminenza di un disastro pronto a invadere il presente e alterarne gli equilibri cadenza le prime pagine de L’amico di Tiffany Tavernier (trad. Tommaso Gurrieri, Edizioni Clichy, 2022), marca il passo di una deriva verso il buio. Thierry è un uomo di mezz’età amante della solitudine, devoto alla moglie Élisabeth, divide le sue giornate tra il lavoro in fabbrica e le piccole riparazioni domestiche. Si ritaglia qualche fugace evasione nelle passeggiate nel bosco con Guy, il nuovo vicino che da pochi anni si è trasferito nell’abitazione di fronte con sua moglie Chantal. Sente di poter condividere con lui una complicità fatta di momenti semplici e genuini. Scoprirà che quell’amico è il responsabile dello stupro e dell’omicidio di numerose ragazzine nella regione. L’immagine indelebile della casa dei vicini circondata dai reparti speciali della polizia genera una crepa, testimonia una realtà parallela rispetto a quella vissuta sinora.

Affiorano dettagli che danno un senso a rituali consumati con macabra naturalezza: dal lenzuolo misteriosamente smarrito usato per seppellire un corpo, allo zucchero richiesto per fare dolci alle vittime recluse in cantina, alla finestra spaccata, ai lamenti nella notte scambiati per i guaiti del cane. Il romanzo è il racconto dello sconcerto provato di fronte a una verità rifiutata, la segreta illusione di salvezza di un’immagine beffarda.

L’evento genera un doloroso distacco: divenuta “una statua pietrificata in una sabbia cosparsa di rovine”, Élisabeth decide di andarsene perché incapace di far fronte alla situazione. Thierry sceglie di restare, e quel passo definisce la posizione di un uomo chiuso in sé stesso che nonostante la fatica di vivere circondato da telecamere, poliziotti, richieste continue di indiscrezioni da conoscenti e parenti, non intende lasciare un luogo ritenuto l’unico fortino inespugnabile, la sola zona franca in un mondo ostile. Quella casa però diventa estranea, ostile, allontana da un’idea di felicità perché svuotata della sua anima.

Tavernier racconta il dolente avanzare nel quotidiano di un uomo consumato dalla mancanza straziante della donna amata incomprensibilmente lontana. Nonostante il rancore per il tradimento subito, sopravvive in Thierry il desiderio di riavere indietro quel che sente appartenergli, la fantasticheria del riscatto impossibile di un uomo macchiato dalla colpa, irriconoscibile rispetto all’immagine custodita nel ricordo.

Per quanto tempo ho camminato attraverso quel caos di foglie e di rami? Dappertutto la stessa desolazione. Avevo finito per stendermi e chiedere perdono. Non so a chi. Ma il perdono era necessario. Poi mi ero chinato a raccogliere un po’ di terra.

Quell’ingenuità incompresa e confusa assume i contorni di uno squilibrio che può essere sedato solo rintracciando le ragioni dei padri, cercando le parole di un eremita, invocando una benedizione. Lo stordimento della perdita rende quell’uomo ridicolo nel contrastare da solo una feroce speculazione sul dramma e nel perseguire l’inattuale. L’accanimento con cui mostra di arroccarsi a una casa che è metafora delle illusorie certezze relazionali, testimonia una radicata fatica di vivere nel presente tra rovine di ricordi non replicabili e traumi camuffati.

L’amico è il racconto in presa diretta di una progressiva ridefinizione di sé a partire dall’annientamento di ogni riferimento famigliare e amicale, che si origina dagli interrogativi sul rapporto con la fine della vita e sull’idea di salvezza, di giustizia. L’indagine sulle falsificazioni del reale, sull’idea del mostruoso che si sovrappone al noto e che incombe attraverso immagini deformate del quotidiano, compone un romanzo profondamente misterioso, dominato dalla ricerca di una verità che sembra irraggiungibile, nell’equilibrio perenne tra fascino e male oscuro.

In un groviglio di “respiro e orrore” la prosa di Tavernier ispeziona le questioni sotterranee celate in ogni figura che biforcano la narrazione per rinnovare la memoria delle crepe dell’infanzia e richiamare la suggestione provata nei fugaci momenti di gioia. L’ambiguità su cui si regge l’opera mostra le innumerevoli versioni del reale prodotte da ricordi “rispuntati a grappoli interi”. La consapevolezza di una dissoluzione inesorabile domina i percorsi mentali di un uomo che prova a osservare sé stesso retrospettivamente riconoscendo la stessa immobilità che lo attanagliava da bambino.

Sono il figlio inaccessibile. Il figlio della morte e dell’abbandono. Fuori è tutto infinitamente triste: le bottiglie di plastica, le sigarette schiacciate, la gente rintanata in salotto. Eppure è estate. Guardo la fattoria, mi siedo di fronte alla porta. Tutto questo silenzio. C’è ancora qualcosa da vivere per me?.

La prosa ricalca i meccanismi alla base di una deviazione, e trova nel frammento la forma adatta per trasporre le contraddizioni, i moti interiori, i desideri sopiti, la collera latente. Assegna un senso all’assurdo nel riesumare le pagine di un diario: traccia il desiderio di annullare la verità e tornare a una rassicurante finzione nei luoghi di un’infanzia generosa e irraggiungibile “tra i crepacci di fango secco, erica e ginestra”. Tra visioni allucinate e slanci lirici improvvisi che annunciano l’inesorabile, sono i sentieri che lambiscono l’Aune a favorire una riappacificazione con la parte più oscura di sé, evocate dallo scontro con un orrore che scardina le certezze e impone una ridefinizione a partire dalla paura dell’abbandono, dall’egoismo dell’amore, dall’assenza di parole.

I brandelli di storie che risalgono in superficie mostrano il lato più oscuro e cupo dell’individuo: il tormento, il dolore e il peccato muovono i fili della narrazione. La cronaca di uno sfacelo interiore prende forma nelle parziali sovrapposizioni di passaggi descrittivi che cadenzano l’evolversi degli eventi e narrano un inabissamento nel vuoto.

L’intensificazione drammatica scompagina la forma, racconta l’astensione dalla pietà, la necessità di una liberazione dal dolore, il sottile equilibrio tra la tensione al delirio e i tentativi di rimanere aggrappati alla realtà. Il tarlo del dubbio e dell’incertezza domina pagine incentrate sull’abbaglio del vero. Al centro la condizione di assenza di difese di chi invoca una redenzione per il male dell’umanità intera percepito sulle proprie spalle.

Chi fermerà quest’orgia di sangue? Quest’orgia che m’inghiotte. E che io stesso ho fomentato?.

Con L’amico Tiffany Tavernier sembra fare propria l’asserzione crociana del “Dove tutto è reale, niente è reale”. La messa in crisi il noto mina ogni rassicurante convinzione per mettere a nudo l’enigma del vivere.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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