
Photo by Marina Kazmirova on Unsplash
Quando nel 1908 esce L’inferno di Henri Barbusse, autore accostato a Proust, Gide e Malraux, a destare scalpore è l’idea di narrare di un uomo la cui vita cambia radicalmente dal momento in cui prende a spiare le vite degli altri. Nient’altro ha più senso che osservare da quella fessura nel muro della pensione parigina ciò che accade nella stanza accanto. L’inferno è celato nella forma che assume il desiderio per chi vive come una dipendenza lo studio dei comportamenti altrui, un “sublime rimpianto” nella consapevolezza che, nonostante tale separazione, esista un “temibile inizio di felicità”.
Una sottile analogia con quanto avrebbe narrato, a oltre un secolo di distanza, Chuck Klosterman (alter ego, trad. Leonardo Taiuti). Scrittore, giornalista, acuto critico musicale e della cultura pop, diventa noto in Italia con Morire per sopravvivere. Una storia vera all’85% (minimum fax) e Fargo Rock City. Un’odissea heavy metal nel nord Dakota rurale (Odoya).
Con L’uomo visibile elegge un personale prisma di osservazione del presente calandosi nei meccanismi mentali di un individuo disturbato che si presenta come uno scienziato, ideatore di una tecnologia in grado di mimetizzarsi per osservare gli altri quando sono da soli. La prospettiva prescelta è quella della psicologa contattata per avviare un ciclo di sedute. Risucchiata implacabilmente in quella ossessione, perderà la lucidità necessaria per trattare il caso finendo col collocare il paziente come epicentro della propria esistenza. “Quando fosse svanito dalla mia vita, sarei tornata a essere solo una persona”.
Klosterman scandaglia le sfumature del comico e del grottesco per addentrarsi nell’interesse morboso, camuffato da cinismo, per la realtà nascosta dei comportamenti umani. Un voyeurismo travestito da curiosità accademica che innesca una degenerazione inesorabile quando la mania di onnipotenza e la convinzione di conoscere il bene altrui ne determinano gravi ingerenze.
È un quotidiano deformato quello che prende forma nel romanzo, che richiama la nuova routine instaurata tra i personaggi e annuncia, in quel disinteresse a indugiare su dettagli fisici e naturali, l’intento sotterraneo di disorientare il lettore, privato di reali riferimenti e di elementi riconoscibili.
In tale ottica si inserisce anche la scelta formale, con una prosa che trova nella riproduzione monocorde il mezzo primario per esaltare i meccanismi alla base di una deviazione e le sue conseguenze.
Il gioco di inserti tra il passato recente e il presente traccia una cartografia dello smarrimento. Le intermittenze emotive, gli squilibri e le costanti emersioni e immersioni negli abissi insondabili della psiche, trovano la manifestazione ideale in una scelta formale che colloca il romanzo nel solco tra gli appunti personali, l’abbozzo di un romanzo e il relativo carteggio tra la psicologa e l’editore. Quest’ultimo aspetto permette a Klosterman di usare un sottile sarcasmo nell’accennare alle storture del mondo editoriale.
Agli occhi della terapista quel novello Ichabod Crane dal piglio di Conan O’Brien e i tratti di Adrien Brody, persevera nel tentare di formulare una metafora di sé. L’inganno racchiuso nei febbrili tentativi di annullare la propria forma, rendendosi invisibile, racconta la natura ambigua del suo universo e la perversione di un progetto basato sul rovesciamento dell’assetto ordinario per generare continua incertezza e precarietà negli altri.
Klosterman inscena la deriva di chi attua un’attenzione maniacale per la solitudine altrui rivelando le crepe del lungo isolamento con la propria invadente soggettività. Nella convinzione che “l’unico scopo della scienza fosse definire la coscienza. Definirne la realtà”, quella ricerca si scopre destinata a logorare l’uomo, convinto di trovarsi davanti a un paradosso impossibile. Da qui la sua urgenza di “riqualificare la scienza”, sfruttandola per avvicinarsi alla realtà e porla in relazione alla visione del mondo.
Il perno attorno a cui ruota l’intera narrazione è l’indagine sulla realtà, il suo valore e il suo significato, la possibilità o meno di definirla, di scinderla da una sua versione illusoria o immaginaria. Aspetto ampiamente sviluppato in cinematografia – basti pensare a La conversazione di Francis Ford Coppola, o a Ferro 3 La casa vuota di Kim Ki-Duk – e in letteratura, tra gli altri da Bruno Schulz, Witold Gombrowicz, Juan Rulfo, Thomas Bernhard, a Antonio Lobo Antunes. Rispetto a modelli il cui passo allucinato e visionario è in grado di aprire scenari alternativi nell’affondo nel tragico, Klosterman si pone rivendicando una natura enigmatica e multiforme per approntare un continuo sovvertimento dell’ordine. Il culmine di tale esplorazione arriva nella celebrazione dell’artificio per allestire fragili impalcature del reale.
I frammenti di storie delle vittime inconsapevoli si innestano a quella principale per tratteggiare le convinzioni legate ad aspettative inconsce; gli effetti sull’identità per l’impossibilità di provare gioia; la contemplazione della propria infelicità. In tale prospettiva appare irrilevante determinare la reale o meno autenticità degli eventi narrati, in funzione di un più profondo interrogativo sulla facoltà di veicolarne il messaggio.
L’afflizione dell’illusione fomenta ossessioni e cela un dolore più oscuro. Il concetto stesso di visibilità risulta allora relativo, perché connesso alla percezione dell’altro: “ci sono persone invisibili anche in bella vista [..]. Gran parte del mondo lo è. Io volevo vederlo, l’uomo visibile”.
Leggere Klosterman impone di calarsi in una esclusiva declinazione dell’ironico e del sarcastico come mezzo per inserire sottotraccia costanti interrogativi sull’imprevedibilità dell’individuo, sulla società del presente, sulla propensione ad astrarsi dalla realtà, sulla dipendenza, sul confine con la morale nell’indagine sulla verità a proposito della natura umana.
Con L’uomo visibile racconta i cicli sotterranei di un tormento, il logoramento di chi predispone la propria esistenza come una grottesca messinscena utile solo a rigenerare costantemente le proprie ossessioni, come nel lento consumarsi di una giovane donna che passa le giornate a riprodurre all’infinito modalità autodistruttive legate al furioso allenamento fisico, agli stupefacenti e al cibo.
Lontano da qualsivoglia risvolto metafisico, Klosterman indaga le fragilità dell’umano eleggendo in quel distacco le condizioni per attuare un’analisi sociale. L’osservazione dell’altro, la possibilità o meno di averne una visione obiettiva, innescano nell’opera una ricognizione sulla natura della solitudine che approda alla certezza che “le persone non considerano parte della propria vita il tempo che trascorrono da sole. Quello per loro è soltanto un tunnel di isolamento dal quale intendono uscire al più presto”.
Un continuo riferimento all’ambito musicale – a partire dalle sottili correlazioni tra storie disparate legate ai Beatles – , e a quello cinematografico, nel costante parallelismo tra la narrazione delle vicende e la convinzione dell’impossibilità di rendere le gradazioni minime delle relazioni umane e l’implicita assurdità di una loro trasposizione filmica. Il rimando mediatico è reso nel continuo sezionare la realtà, paragonando le sedute psicologiche al puro intrattenimento da reality show in cui si passa dalla raffigurazione di una realtà simulata a una fattuale per divenire accettata. “L’esposizione ai media porta ognuno di noi a credere di poter concettualizzare certe inverosimiglianze ormai molto note”.
Attraverso i suoi personaggi, L’uomo visibile descrive l’inadeguatezza dell’essere umano nell’abitare il proprio tempo. Il contrasto generato tra il suo protagonista e il resto del mondo è reso in quel furioso desiderio di libertà che lo porta a definire l’infelicità altrui misurando il grado di schiavitù di chi si mostra non solo incapace di ribellarsi al presente, ma ignaro del suo assoggettamento.
Klosterman allestisce una beffarda resa dei conti con la realtà con una prosa acuminata per usare l’assurdo nell’aprire continui interrogativi sulla trasfigurazione dell’essere umano, sulla sua libertà, sulla paura, sul nulla che cadenza esistenze confuse in attesa di un senso.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.