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“Rimettendo insieme la realtà, la scrittura la scortica”.

Régis Jauffret affronta l’origine di Adolf Hitler con un romanzo sviluppato dal concepimento alla nascita del Führer. Uscito in prima edizione mondiale in Italia in esclusiva per Edizioni Clichy con la traduzione di Tommaso Gurrieri, 1889 è l’omaggio dell’autore alle vittime della Shoah.

Tra le voci letterarie francesi contemporanee di maggior rilievo, Jauffret è noto ai lettori italiani soprattutto per la sua opera-monstre Microfictions. Associato a Louis-Ferdinand Céline per la capacità di usare un’apparente levità per sovrastare la tragedia e la commedia, affine a Gustave Flaubert per l’attrazione verso un universo desolato e squallido, vicino a Witold Gombrowicz nel raffigurare il confronto dell’individuo con il suo tempo, Régis Jauffret compie una traduzione farsesca dell’essere umano attraverso figure fatalmente perdute.

Nelle sue prose brevi e nei romanzi sviluppa storie inesorabilmente legate alla ferocia e alla violenza, un insieme di tetre istantanee intese come un’unica grande storia dell’essere umano. Affronta per la prima volta una vicenda oscura della sua famiglia nel romanzo Papà (trad. Tommaso Gurrieri, Edizioni Clichy, 2020) nato a seguito della visione di un documentario trasmesso nel settembre 2018, La polizia di Vichy. Lo scrittore riconosce chiaramente il palazzo della sua infanzia a Marsiglia: una sequenza di pochi secondi mostra l’arresto di suo padre da parte di due uomini della Gestapo. L’evento, che pare ignoto a parenti e amici, porta l’autore ad approfondire la vicenda alla ricerca della verità nel comporre il tenero e spietato ritratto di un uomo rimasto estraneo agli altri e a sé stesso. Lo sconvolgimento per quella scoperta tardiva rappresenta per Jauffret l’ulteriore consapevolezza dell’importanza della letteratura nell’illuminare il dramma con una valenza diversa rispetto all’indagine storica e ai documenti testimoniali. Su tale ottica è basata la scelta di rintracciare in 1889 gli elementi tangibili della vita dei genitori di Hitler, i nomi, le citazioni e i luoghi reali, per concepirli come lo scheletro attraverso cui sviluppare un’opera di finzione, verosimile nel descrivere il contesto storico e sociale in cui germogliò l’orrore. Risulta superfluo distinguere gli inserti di invenzione che si innestano sulla vicenda principale: a rivelarsi ricorrente è la raffigurazione di un dolore inestinguibile, di un senso di peccato che simbolizza il prodromo dell’inesorabile.

“La Shoah è in ognuno di noi. Ci abita”, scrive Jauffret nella postfazione. “Gli storici continueranno i loro studi, i filosofi proseguiranno la loro ricerca delle radici del male, gli artisti faranno sentire nelle loro opere i gemiti degli ebrei che morivano di fame nelle strade dei ghetti, le urla dei bambini spinti nelle camere a gas e il sublime canto che a volte sfuggiva dai vagoni sovraccarichi di famiglie terrorizzate in viaggio verso Sobibór, Treblinka, Birkenau o un altro dei campi maledetti di quell’arcipelago che venne realizzato nell’Est dell’Europa. Questo romanzo è il mio umile contributo a questo singolare Memoriale che i creatori del domani erigeranno pietra su pietra”.

In 1889 l’autore adotta la prospettiva di Klara, nipote dell’ufficiale doganale Alöis Hitler, chiamata come domestica e divenuta sua moglie dopo due precedenti matrimoni, per narrare l’ambiente di violenza e soprusi che regna in famiglia, generato dalla ferocia, dall’indifferenza e dall’ipocrisia di un uomo crudele e avido.

Lo scenario d’elezione è l’insano ambiente domestico che serba infausti presagi nelle sventure del quotidiano e amplifica la percezione di immobilità della protagonista, rassegnata a una sciagura incombente. La narrazione risale in retrospettiva ai primi anni di vita di Klara a casa dello Zio, nel doloroso infrangersi dei suoi sogni di matrimonio con un giovane commerciante di cavalli per occuparsi della casa e assistere la moglie malata (prima di subentrare a lei). Le violenze che è costretta a subire ogni notte la fanno sentire impura agli occhi di Dio e la portano a cercare un’espiazione nella confessione e nella preghiera.

Nel luglio del 1888, vicino al giorno di San Giacomo, lo Zio mi mise incinta. Lui mi ricorda spesso l’importanza del dovere coniugale.

Per la giovane si tratta della terza gravidanza dopo la morte per laringite di Gustav e Ida. Dopo Alöis e Angela, nati dal precedente matrimonio, suo marito desidera un altro maschio per avere una discendenza a cui dare il suo cognome. Si sente il fondatore di una nuova stirpe, l’origine di una nuova discendenza, per il fatto di aver modificato il patronimico a quasi quarant’anni, dopo aver ottenuto, grazie a una testimonianza, il riconoscimento di paternità di suo zio Georg Heidler, deceduto vent’anni prima.

Sin dalle prime pagine emerge il clima di terrore in cui Klara è costretta a vivere, fomentato anche dal senso di colpa instillato dall’abate Müller che le infligge dure penitenze lasciandole la convinzione di essere destinata alla dannazione nell’incarnare il peccato con i suoi pensieri blasfemi e la sua immonda gravidanza che disonora Dio.

Jauffret si cala nei pensieri di una donna priva di istruzione che non ritiene di avere diritto a esercitare alcuna volontà e che vive una sorta di adorazione reverenziale per il suo carnefice. Annientata dal dolore per la perdita dei suoi figli nel disinteresse di suo marito, trascorre le sue giornate con un cocente senso di solitudine, senza trovare solidarietà nemmeno nelle altre donne della casa che come lei subiscono la tirannia di Alöis: la domestica Rosalia e la sorella Johanna. Sarà proprio quest’ultima, umiliata quotidianamente dal capofamiglia per la sua disabilità, la principale accusatrice di Klara di fronte all’abate Müller, che le assegna il compito di controllarne segretamente i comportamenti e denunciarne le anomalie. La scrittura rappresenta il solo conforto per Klara. Appunta i suoi pensieri in un diario nascosto tra gli accessori da toeletta con il perenne senso di colpa di reiterare un illecito nei confronti dello Zio che, se messo a conoscenza, la riterrebbe indegna di tale pratica, perché priva, in quanto donna, di qualsiasi capacità intellettuale superiore alla gestione della casa.

Devo contentarmi della vita senza lasciare traccia. Con la mia penna la deformo, ne sono il pessimo pittore. Questo modo di sostituire la realtà con le frasi è impuro. Dovrei colmare il mio svago con il lavoro.

Attraverso le dinamiche famigliari, l’autore descrive aspetti che contestualizzano il periodo storico e permettono al lettore di intuirne il pensiero, la misoginia, l’impianto patriarcale, il classismo e il disprezzo razziale, l’educazione basata sull’umiliazione del debole e sullo spregio della diversità e della malattia.

Tutte le famiglie hanno una storia. Alcune sono simili a quelle che un tempo ci raccontavano intorno al fuoco nelle campagne brulicanti d’illetterati a cui ho avuto poco tempo fa la vanità di comparare le mie misere parole. Racconti oscuri di cui ognuno sciorina la propria versione durante le veglie. I personaggi si somigliano ogni sera un po’ meno, portano nomi in perpetua metamorfosi, acquistano una sillaba, perdono un dittongo e alcuni volgari patronimici escono dalla loro crisalide per divenire, come quello inventato dallo Zio, eleganti come dandy.

Pur aderendo al reale nel comporre immagini sul deviato quotidiano domestico, la prosa apre a visioni improvvise che preludono al più grande dramma del Novecento. A preconizzare la catastrofe nel rappresentare il preambolo al tragico sono le fantasie di guerra di Alöis, convinto della necessità di purificare l’Europa infestata da repubbliche e principati. Risultano emblematiche in tal senso le pagine dedicate alla cura delle api ritenute un modello esemplare a cui ispirarsi nell’amministrare la giustizia attraverso l’autorità reale che deve anche “presiedere all’esecuzione delle lavoratrici inadatte e arruolare truppe per combattere contro vespe, calabroni, picchi, rondini, tutti quei predatori che sognano di sgranocchiarsele e di devastare la loro nazione”. Vicende analoghe assumono un significato simbolico nell’opera, nel rendersi portatrici di un dramma che incombe, come le immagini di un canile che paiono quelle di un lager, nate a partire dalla descrizione dell’amore dello Zio per i cani, che lo porta a educare suo figlio a reagire come se fosse un animale addestrato.

Il canile confortevole, a ogni animale la sua casetta, i suoi biscotti, i dolcetti, a ricompensa del duro lavoro, sognano i prigionieri dall’odore sublimato grazie alla prossimità della morte – l’immaginazione come ultimo lampo della mente, ma non è lassù il fumo dei sogni che sale spesso, unto, maleodorante verso l’aldilà deserto.

Jauffret assegna piena centralità alla donna che porta in grembo Adolf per descriverne la sofferenza silenziosa. Il suo tormento nel peccato la rende una visionaria che usa la scrittura per comporre immagini mentali per esularsi dal presente. Vede un futuro di cui non ha cognizione e lo narra con termini di cui non è a conoscenza, che sgorgano dalle sue viscere.

«Nel mio ventre la sventura del mondo». La guerra, la guerra, la guerra tanto sperata dallo Zio. I binari che solcano l’Europa. Gli innumerevoli vagoni che attraversano Paesi bombardati, superano la stazione, penetrano al passo dentro il recinto, si fermano a qualche metro dall’entrata del labirinto. I vagoni svuotati nel panico a colpi di bastoni che per proprio piacere le guardie hanno riempito di chiodi. L’ossessione dei carnefici di evitare che la folla si rivolti convinta della propria morte prossima se le si lascia il tempo di riconoscere l’odore della carne bruciata.

La voce inconfondibile di Jauffret narra la conquista di una nuova memoria stratificata sull’esperienza di vita di una donna inconsapevole, succube di un accumulo crescente di simboli di morte. Il flusso incontrollato di pensieri e parole che provengono dal figlio che porta in sé si sovrappone al simbolo della vita insito nella gravidanza, che assume sembianze sinistre. A rendere l’opera realmente dirompente è la scelta di attuare un omaggio alle vittime dell’Olocausto senza ricadere nella memorialistica. Jauffret non è interessato a operare travestimenti narrativi di materiale biografico per consegnare l’ennesimo romanzo di taglio documentale sulla Shoah votato alla denuncia sociale.

1889 è un’opera di matrice politica che si regge sull’invenzione per enfatizzare la maschera del reale e insinuarsi nei grovigli dell’odio. Isolare il frammento di un’epoca nei nove mesi di una gestazione permette in senso simbolico di radiografarne l’orrore e renderlo l’emblema di un’epoca. La coesistenza del visionario col verosimile è l’esito della sovrapposizione del noto sull’inatteso, conduce fantasie oscure a invadere un quotidiano doloroso e irrisolvibile. Jauffret compie una dura riflessione sul peso della memoria, sull’impossibilità di esimersi dal passato, sull’assenza di una reale salvezza. Una tetra derisione della grettezza dell’essere umano, essenziale per palesarne la matrice ridicola, l’inettitudine esistenziale.

È una maledizione essere esiliati così lontano nel futuro. È peggio del passato, del presente e anche del futuro stesso. Pensiero assurdo ma che ha forse una sua profondità malgrado tutto perché la verità si nasconde a volte nella penombra della ragione, stanca di spiegare la storia dell’umanità.

 

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1 commento

  1. Un grande scrittore europeo. Le Microfinzioni formano un universo narrativo strepitoso. Non ho ancora letto 1899; grazie per questa pagina.

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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