di Maria Paola Corsentino
Cosa si può dire sul corpo che non sia già stato detto? Ancora molto e Girlhood di Melissa Febos ne è la dimostrazione. Uscito per Nottetempo grazie alla traduzione italiana di Federica Principi, il memoir ci racconta l’intima e tormentata esperienza con l’unica nostra vera proprietà: il corpo, appunto.
Attraverso i racconti dei suoi primi approcci coi maschi e della relazionalità con le altre femmine, Melissa Febos ci conduce negli abissi della sua adolescenza e ci aiuta a risalirli ma senza tenderci la mano: è la sua scrittura che ci fa riemergere mediante l’elaborazione di ciò che è adesso in base a ciò che è stato, degli effetti prima ancora che delle cause. Perché il corpo conserva la memoria dei fatti anche quando noi rimuoviamo ciò che è successo.
La cronologia degli eventi si dipana come una matassa via via che le fattezze del suo corpo si modificano inevitabilmente, ora che il presente può rileggere e interpretare con lucidità il passato.
Quello che «un tempo era un contenitore affidabile» si espande e sfugge al controllo di chi lo abita. Melissa scopre che al cambiare del suo corpo cambia anche il suo valore nel mondo in quanto persona: può diventare oggetto di dileggio o di apprezzamenti non richiesti, sguardi e mani moleste possono insidiare le sue nuove forme. E il libero uso della sua carne è motivo di appellativi giudicanti e dolorosi.
Crollano le poche certezze dell’infanzia e si apre una voragine di dubbi esistenziali che la fanno sentire il più delle volte sbagliata, ma rispetto a cosa? È difficile dirlo finché non diventa adulta. Nessuno spiega nulla e quel poco che viene detto non corrisponde alle esperienze “vere”, che sono imbarazzanti e scomode quanto i primi reggiseni e i primi tamponi.
La vera scoperta, quella più inquietante forse, è un’altra: quel corpo è come se non le appartenesse veramente, è una sorta di speciale usucapione che condivide cogli altri. Il potere sul suo corpo lo possiede chi decide di prenderselo o lo soppesa con giudizi e occhi severi attraverso il parametro della disponibilità o del pudore.
«Tutto ciò che so sul sesso me l’hanno insegnato il capitalismo e il patriarcato» intuisce Febos e noi lettrici non possiamo che annuire. Capitalismo e patriarcato, i Sistemi oppressivi e repressivi per eccellenza, che offrono alla donna che si autodetermina due etichette: strega o puttana. Due sistemi interconnessi che non ci vogliono né felici né libere, né tantomeno sicure e appagate.
Le storie di cui l’autrice ci mette a parte sono più comuni di quanto pensiamo e questa somiglianza possiamo scoprirla soltanto se condividiamo anche le nostre, proprio come ha fatto lei. Ed è in questa apertura cruciale che l’io diventa noi e ha inizio quella presa di consapevolezza che porta alla liberazione dei corpi e del pensiero.
C’è una fondatezza quasi statistica nel constatare che viviamo il nostro corpo e anche il nostro piacere mettendoli quasi sempre in relazione agli altri, demandando il possesso su noi stesse. Provoca un misto di inquietudine e sollievo ritrovarsi in un libro fin dalla prima pagina e con così tanta presenza di sé da non capire come fra sconosciute ci si possa intendere.
Se è comune pensarci attraverso gli altri e perdere ogni briciolo di autenticità e amor proprio, quello che Girlhood sta lì a ricordarci è che questo habitus non è pacifico per niente perché ci scoraggia e ci fa vivere una costante scissione fra mondo interiore e mondo esteriore.
Durante l’adolescenza è scissa anche la nostra dimensione sociale tra la sfera familiare, che ci vuole ragazzine innocenti, e la sfera pubblica, che ci vede appena approdate alla pubertà già come soggetti da sessualizzare fino al punto da trasformarci in oggetti.
Rinunciamo prestissimo al nostro diritto di negare o ritirare il consenso perché sperimentiamo che dire no è molto più faticoso che cedere per qualche minuto ancora e lasciare che tutto si concluda, l’autrice lo chiama «vuoto consenso» (empty consent in lingua originale). Abdichiamo al piacere altrui lasciando che il nostro giunga dopo o non giunga mai, perché non siamo abituate a venire prima. Letteralmente.
La storia di Girlhood è quella di una ragazza cis, è bene dirlo soprattutto se si parla di corpi, che non vive soltanto esperienze eterosessuali. Anzi, il confronto che scaturisce tra queste e le relazioni lesbiche può essere un elemento interessante per interrogarsi su come occhi e mani appartenenti allo stesso genere possono farci cambiare la percezione di noi e del nostro corpo. Risulta chiaro però che la differenza non sta semplicemente nei sensi della vista e del tatto ma nel diverso modo di rapportarsi: complicità o assoggettamento?
Ciò che Melissa Febos ci racconta, a tratti trascinando chi legge in lunghi minuti di apnea, è il processo di cicatrizzazione della ferita che si apre con la fine dell’infanzia e si conclude con l’inizio dell’età adulta, almeno nel suo caso. Ognuna ha i propri modi e i propri tempi di elaborazione, e – aggiungerei – le proprie possibilità e il proprio grado di privilegio per prendere coscienza di sé e di ciò che accade. Ma proprio perché la cicatrice è quel che resta di una ferita e proprio perché quella ferita è stata provocata sul nostro corpo la cura non può che partire da noi, per noi.
Il giorno in cui, scrollateci di dosso tutte le pressioni esterne, guardando il nostro riflesso allo specchio riconosceremo il segno della cicatrice tra il mondo esteriore e quello interiore, ciascuna potrà finalmente dire «Grazie per esserti presa cura di te stessa».
Arricchito dalle illustrazioni in bianco e nero di Forsyth Harmon che ne scandiscono i capitoli e da una indovinatissima copertina di Alessandro Baronciani, questo libro mi è risuonato in testa come una sequenza di canzoni che si è andata compilando pagina dopo pagina quasi a ricomporre la mia adolescenza. Eccole:
Double Dare Ya – Bikini Kill
Mi Pena y Mi Suerte – mafalda
Me gusta ser una zorra – Vulpes
Wargasm – L7
Victime des réseaux – Angèle
Is This Desire? – PJ Harvey
Poof Bitch – Pussy Riot, Big Freedia
No One’s Little Girl – The Raincoats
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