Baustelle live Pistoia Blues 2023

Quando sabato pomeriggio ho iniziato a leggere le poesie di James Joyce, quei versi mi hanno fatto uno strano effetto, trovando non tanto delle narrazioni, quanto piuttosto una ricerca incessante nell’evocazione di un’atmosfera. Le domande che sollevano i componimenti poetici di Joyce sono molte, a partire da questo volumetto di poesie pubblicato sotto il titolo di Musica da camera che ho acquistato da Salimbeni qualche settimana fa. La ricerca di una musicalità totale, piena di una compiaciuta raffinatezza e non priva tuttavia di ironia, sempre densa di un vago senso di sofferta consapevolezza, mi appare sin da subito il prologo perfetto e pure un po’ sentimentale per il concerto che vivrò dì lì a poche ore.

È fondamentalmente l’appartenenza che muove il mio pellegrinaggio sonoro nei confronti dei Baustelle, band che significa radici, adolescenza, dolore, scoperta, maturità. La tirannia amorosa coltivata da Francesco Bianconi, autore, musicista, prosatore, provinciale, bianciardiano, e gran signore dell’Abbandono, mi porta a essere nuovamente in attesa di un concerto in cui sentirsi a casa non è un valore aggiunto ma la condizione di partenza. Quindi mi dimentico di Joyce e mentre le luci del giorno lasciano arrivare il buio, signorile e imponente nel cuore civile e religioso di una quieta Pistoia, riconosco gli stessi volti incontrati ad altri live, dalla Festa del 25 aprile di Fornacette agli auditorium cittadini, passando per i club di tutta Italia, le piazze piovose e i festival estivi. Chi manca ancora all’appello è Elvis, l’ultima fatica di Bianconi e soci, pubblicata lo scorso aprile.

So che quello di stasera sarà un viaggio dentro tutti i dischi dei Baustelle, ho spiato tra le scalette dei live precedenti e sono felice al pensiero di tornare indietro, riconoscermi in storie che non mi appartengono più, amori antichi e crepuscoli in affitto. È una questione di attimi e dopo aver assicurato a Simona che canteranno sicuramente il suo pezzo preferito, il palco si popola della famiglia musicale più in voga del momento – ed è così da vent’anni.

La scelta dell’apertura – Andiamo ai rave meravigliosamente dritta – non poteva segnalare più chiaramente la loro trasformazione, la loro fiducia nell’inclinazione sperimentale degli ultimi due album. Si tratta di una canzone che non avrebbero potuto partorire nemmeno dieci anni fa, figlia di una scelta coraggiosa che assorbe il potere alchemico della ballad e la trasforma in inno comunitario. La progressione armonica r’n’b, l’arrangiamento avvolgente, il testo netto, il ritornello esaltante, e poi quel Per restare vivi organizziamo concerti, come una promessa, come un dovere. I Baustelle sono tornati, rifondati, ritrovati, sempre osservatori acuti del nostro presente, tra frammentazione e storicità. È indiscutibile che sentire la voce di Bianconi, di nuovo contrapposta a quella di Rachele Bastreghi – dopo le loro avventure soliste – susciti un’emozione fortissima grazie a quella loro capacità di essere complementari, di sapere quando arriva il momento di lasciar respirare l’altro, qualcosa di impareggiabile.

Si muovono sapienti nell’ipervelocità del boogie glam rock di Betabloccanti cimiterali blues ed è già il momento di un salto nel passato con uno dei brani più iconici dell’intera discografia baustelliana. Cantare a squarciagola La guerra è finita oggi assume molteplici livelli di significato, perché non si ha più quindici anni, perché la ribellione si è trasformata in quieta arte dell’amarezza, perché non si scende in piazza contro il Berlusconi III anzi Il Cavaliere è morto nemmeno un mese fa, e perché la guerra non è finita nemmeno per un giorno. Ci sono brani che invecchiano benissimo, altri che mostrano subito crepe e debolezze, e poi ci sono le vecchie canzoni dei Baustelle che sembrano portarsi dietro il carico della confusione dei giorni nostri, della polvere negli angoli e dei punti di luce, delle tombe e degli altari, mentre l’amore consuma e distrugge, mentre la violenza ci ipnotizza, illudendoci di essere eterni, superstiti all’infelicità altrui. E loro, le canzoni, restano ferme, come mura difensive ad accoglierci, sempre. Perché fondamentalmente i Baustelle hanno sempre tutte le risposte, sempre.

Stasera Bianconi ha la voce forte, calda, e scoscesa come un sentiero battuto da camminatori instancabili. Spavaldo prosegue la traversata con i brani del nuovo disco – un duello di fioretto con il pubblico – inanellando cinque prove fatte di controllo del palco, contatto con la folla, divertimento inaspettato: Contro il mondo, La nostra vita, Milano è la metafora dell’amore, Gran Brianza, lapdance asso di cuori stripping club e Los Angeles appaiono tutte creature di un nuovo approccio alla composizione, non più votata al passato , non più interessata a narrare quel che siamo stati e non saremo più. La malinconia sulla quale ha impresso con ostinazione la sguardo appartiene effettivamente a un’altra vita. In questo, Bianconi resta uno dei pochissimi che continua a migliorarsi artisticamente, a mutare metodo, scrittura, ritmo, sebbene sia sempre possibile riconoscerne la cifra stilistica. Anche la forma della sua emotività sembra essersi trasformata, tanto nelle canzoni quanto nel gestire il pubblico adorante: le interazioni, sempre prive di sbavature, di parole inutili, che si concede durante il live, accrescono questa idea di un uomo risolto, e di un artista massiccio. “Elvis è ancora vivo e il suo cuore batte dentro ognuno di voi. Elvis non muore mai”, crediamo a questo concetto, crediamo a Francesco.

Ogni tanto Bianconi si diverte a cantare mezzo passo dietro il ritmo della versione disco, generando un certo spaesamento nei fan che tentano invano di cantare insieme a lui. Una forma obliqua di spettacolo che rimarca la personalissima natura di rock star: l’annosa questione circa cosa significhi essere autentici passa anche da qui, dal patto di fiducia che alle volte può (e deve) infrangersi. L’arrivo di Monumentale smuove e commuove, aprendo le porte a quel viaggio nella memoria che attendevo assieme a molti degli astanti presenti. E sono proprio i brani meno recenti a subire una rivoluzione negli arrangiamenti, nella veste sonora, nell’impatto dello show: dalla versione acustica e con armonica finale de I provinciali all’adagio imposto allo scoppiettio di Veronica n. 2, dalle insolite percussioni che pervadono Amanda Lear fino alla struggente e simmetrica versione de La donna cannone di De Gregori.

Il tempo in questa notte estiva non sembra avere alcuna importanza: per un attimo chiudo gli occhi e aspetto solo che suoni la campanella delle 13:05 per uscire da scuola e tornare a casa ad ascoltare i dischi che ancora non conosco. C’era qualcosa di commovente in quei pigri pomeriggi passati ad arrangiarsi, a cercare sacchi di tempo in cui perdersi. A un certo punto mi ritrovo con le lacrime che escono decise. E penso alla prima volta che sono caduta dalla bicicletta, penso al rumore meccanico dell’apparecchio per i denti che portavo orgogliosa in seconda media, penso al titolo del tema della maturità, al volto di mia nonna, al profumo del mare dopo un inverno cattivo. Penso a tutto questo e lo vedo lì, fuori da me. La beltà di un suono che amplifica il ricordo ma non lo distorce, non lo trasforma, piuttosto ne concretizza la tangibilità. Questo fanno le canzoni dei Baustelle. Ed è una cosa bellissima e indicativa che ognuno di noi abbia i propri Baustelle, chi non può fare a meno de La Malavita, chi del tempo che scorre di Fantasma o ancora chi predilige i fasti rock’n’roll del nuovissimo Elvis. Una band composta da mille sfaccettature diverse, e ciascuno si prende quello che vuole. 

La forza superna di cui godono spesso le canzoni che vogliono farsi cantare, stonando, urlando, sbagliando le parole, non pare riguardare ossessivamente i fan dei Baustelle i quali sembrano riconoscere anche il rito dell’attesa, nella selezione dei brani da sentire dentro, di quelli da cantare con equilibrato trasporto e di quelli in cui si può – o meglio si deve – saltare senza remore, sputando fuori i testi, tendendo le braccia verso il palco, come se avessimo tutti di nuovo vent’anni, sudati, perduti e invincibili.

Bianconi oggi scrive del presente e inserisce il quotidiano nei testi come fossero annotazioni di diario. Ciò che non muta negli anni è il suo parlare di persone, luoghi e oggetti come contenuti che possono essere vissuti in prima persona anche da chi ascolta. Ecco perché proviamo la stessa depressione, la stessa rabbia, la stessa disperazione che pervade i brani della band. Quei frammenti, quelle schegge di storia che della provincia contadina si sono radicate in città, nella Milano di Porta Venezia o del quartiere Dateo, e che, attraverso l’inclusione compiuta da Bianconi, vengono incorporate nel tessuto della canzone inglobandole nell’archivio di una memoria collettiva. Questo dipinto sonoro che assorbe gli oggetti e le esperienze reali di vita vissuta all’interno di un ambiente ben preciso, diventa un mezzo per preservare e riaccendere la scintilla del passato, pur avendo smesso di parlarne. È la prosa di colui che possiamo chiamare narratore ovvero colui che intreccia l’esperienza personale con la propria opera e come risultato di quella tessitura vi trascina dentro anche la comunità e la sua storia.

La depressione di cui spesso i Baustelle hanno scritto e cantato viene oggi sostituita da una consapevolezza lucidissima e tagliente che viene comunque espulsa (così come avveniva con vergogna, la rabbia, la confusione e la disperazione dei primi dischi) nel tentativo di vedere la realtà per ciò che è veramente. Molto spesso solo una questione di classi sociali, di amori presi a morsi o degli effetti del liberismo che, per Bianconi già quindici anni fa, doveva avere i giorni contati. Con le canzoni dei Baustelle siamo sempre alla ricerca di un indice temporale in cui calarci, cercando vie d’uscita dalle limitazioni della nostra condizione sociale, culturale e privata.

Non abbiamo ancora vomitato l’anima e gli occhi a un concerto rock quando il coccige di questa notte sconfinata si prepara all’ultimo colpo di coda con Love Affair, la cui conclusione prog rock catapulta l’intera band nell’immaginario dello sperimentalismo anni ‘70. Bianconi raggiunge i suoi sodali posizionandosi nella sezione tastiere e viene scattata la fotografia di un passato italiano radioso in cui anche noi, con le nostre invenzioni, con i nostri New Trolls e con i Gruppi di Morricone abbiamo scritto un pezzo di storia. Bianconi muove le mani con gesti secchi, definiti e definitivi, una posa che non fa ma è: quasi una benedizione laica di un vescovo rock’n’roll che non teme più di mostrare quanto effettivamente si sta divertendo nel fare il proprio mestiere. La vita non è più agra, sarà anche un po’ stupida però è bellissima.

Sapere indossare ancora alla perfezione canzoni come Gomma, La canzone del riformatorio e Charlie fa surf (per una chiusura che suona come una restituzione ai fan della prima ora) permette ai Baustelle, in questa notte di luglio caldissima e frenetica, di regalare una rabbia che ha lasciato la provincia tanti anni fa ma che ancora oggi sa farsi affilata, precisa, signora di un controllo mistico che provoca una lenta e lancinante bruciatura. D’altronde non siamo mica immortali, bruciamo. Ed è meglio così.

*A noi venne Amore nei tempi andati è una poesia di James Joyce tratta dalla raccolta Musica da camera pubblicata nel 1907.

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Autore

beatricepagni@minimaetmoralia.it

Beatrice Pagni è nata e cresciuta nella campagna toscana, figlia della miglior provincia cronica. Redattrice di minimaetmoralia, ha scritto e continua a scrivere di musica e cultura per diverse testate (Sentireascoltare, Il Mucchio Selvaggio, Il Foglio Letterario), oltre ad aver esplorato il mondo della web tv con l'esperienza targata Decamerette.

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