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nick celentano

Polistena, 8 luglio 2016.Dopo trent’anni, ho ritrovato Nick Celentano all’Hotel Mommo di Polistena (RC). O meglio, lui ha ritrovato me.

L’avevo incontrato a sette anni, nel mio paese – mio padre era allora, e per tutti i fumosi anni Ottanta, segretario della sezione DC locale – a fine agosto c’era la Festa dell’Amicizia, contraltare democristiano della Festa dell’Unità – e in programma, quell’anno (sarà stato il 1986, o 1987), il concerto di Adriano Celentano.

Ora, voi potete pensare che la folla oceanica che si vede alle spalle del cantante nella locandina autografata e sbiadita che ho scoperto sotto il vetro del bancone nella reception dell’albergo sia un’esagerazione, un fotomontaggio: e invece no, perché io quella folla meridionale di baffi e basettoni fuori tempo massimo me la ricordo precisamente così, nella piazza principale. Approfittando biecamente della mia posizione di privilegio (il figlio del segretario della DC!) mi ero visto il concerto di Adriano vicino al palco.

Poi, fendendo quella stessa folla, eravamo andati a conoscere – io e mio padre – il mitico cantante. Non c’era un camerino, quindi il camerino era diventato momentaneamente la sezione stessa del partito. Spettatori in delirio, ressa, pure un pochino di agitazione, arrivo davanti al personaggio con la penna in mano, ed ecco la doccia fredda – gli dico: “Ma tu non sei Adriano!” – e lui imperterrito finge di essere l’originale, facendomi anche due mosse da supermolleggiato.

Niente da fare, l’ho riconosciuto – ho visto qualcosa che non va – le pieghe nella faccia, il modo di parlare e di gesticolare, la complessione fisica: in effetti, è più corpacciuto. (Anche mio padre insiste con me, contro ogni evidenza, che lui è quello vero: e si affretta a portarmi via, sollevando Nick dall’imbarazzo del momento.)

Quella delusione di me settenne riverbera nel piacere di ritrovare questo vecchio amico finto, qui in Calabria, decenni dopo.

Questo bancone è una teca che preserva Nick – come un santo o un eroe: la posa del resto è quella – insieme agli idoli anni Ottanta delle tournée joniche (Nicola Di Bari, Luca Barbarossa, Fiorella Mannoia, ecc.: gli originali). E questa cosa degli imitatori musicali è una specificità italiana e meridionale, ne sono convinto: l’imitazione del resto è così legata al carattere nazionale e locale, alla nostra attitudine nei confronti della vita e del mondo, alla nostra disposizione d’animo fondamentale, che è quasi impossibile immaginare una realtà in cui essa non sia divenuta un mestiere remunerativo e persino rispettato.

***

La simulazione è per noi italiani una condizione secolare, atavica: è qualcosa che ha a che fare – moltissimo – con il Seicento, con il Barocco, con la Controriforma, con la commedia dell’arte, con il melodramma. Da circa quattro secoli e mezzo, la nostra vita individuale e collettiva si svolge sempre e comunque nel territorio della rappresentazione, della teatralità, della finzione.

Della maschera: “La non-volontà di conoscersi degli ‘italiani’ è strettamente legata ad un altrettanto forte bisogno di una maschera. Mettersi in maschera significa non solo nascondersi dietro una maschera, ma attribuire alla maschera il compito di rappresentarci. La maschera diventa l’intermediario, l’altro io interposto tra noi e gli altri. (…) la maschera consente sempre all’io che c’è dietro un’ultima riserva, gli consente sempre al momento buono di sganciarsi, di dissociarsi, di ritirarsi dal gioco e di non identificarsi più con quello che fa. Di prendere le distanze, insomma, e dunque di sentirsi non-responsabile (Raffaele La Capria, Il sentimento della letteratura, Mondadori 2011, pp. 238-239).

Dunque, è come se non avessimo mai davvero imparato come si aggancia il pensiero all’azione, il racconto alla trasformazione effettiva del mondo. Dei corpi, delle relazioni, dei rapporti: di ciò che noi facciamo insieme agli altri.

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Autore

christiancaliandro@minimaetmoralia.it

Christian Caliandro (1979) è storico, critico d’arte contemporanea e curatore. Insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia. Tra i suoi libri: La trasformazione delle immagini. L'inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-‘83 (Mondadori Electa 2008), Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino 2011, con Pier Luigi Sacco), Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani 2013), Italia Evolution. Crescere con la cultura (Meltemi 2018), Tracce di identità dell’arte italiana. Opere dal patrimonio del Gruppo Unipol (Silvana Editoriale 2018), manuale Storie dell’arte contemporanea (Mondadori Education 2021) e L’arte rotta (Castelvecchi 2022). Dirige la collana “Fuoriuscita” per l’editore Castelvecchi. Dal 2004 al 2011 ha diretto le rubriche inteoria e essai su “Exibart”; dal 2011 cura la rubrica inpratica su “Artribune”. Collabora inoltre con “minimaetmoralia” e “che-Fare”, e dal 2017 dirige insieme a Angela D’Urso La Chimera–Scuola d’arte contemporanea per bambini presso TEX, ExFadda, San Vito dei Normanni (BR). Ha curato numerose mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati, tra cui: The Idea of Realism/L’idea del Realismo, American Academy in Rome, Roma (2013); Concrete Ghost/Fantasma Concreto, American Academy in Rome, Roma (2014); Amalassunta Collaudi, Museo Licini, Ascoli Piceno (2014); Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-1958), CUBO-Centro Unipol Bologna (2015); Cristiano De Gaetano: Speed of Life, Fondazione Museo Pino Pascali, Polignano a Mare (2017); Now Here Is Nowhere. Six Artists from the American Academy in Rome, Istituto Italiano di Cultura, New York (2017); le quattro edizioni de La notte di quiete, ArtVerona, Verona, quartiere Veronetta (2016-2019); le sei edizioni del progetto Opera Viva Barriera di Milano, Flashback, Torino (2016-2021); il progetto Artista di Quartiere, Torino (2020); Z/000 GENERATION. Artisti pugliesi 2000>2020, AncheCinema, Bari (2020); Fragile, galleria Monitor, Roma (2021); Cantieri Montelupo, programma di residenze artistiche, Museo della Ceramica, Montelupo Fiorentino (2021). 

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