
Il cantautore piemontese ha presentato il suo ultimo album in due giornate di ascolto collettivo all’Angelo Mai. (Fotografia di Giovanni Canitano)
La cupola geodetica illuminata da luci soffuse, sembra respirare. Al suo interno l’aria vibra di frequenze e riflessi: un paesaggio sonoro e visivo prende forma, lento e avvolgente, come se la musica avanzasse fisicamente, facendosi spazio tra il pubblico. In questa atmosfera rarefatta – non poteva essere diversamente – Andrea Laszlo De Simone ha presentato ufficialmente il suo ultimo album, Una lunghissima ombra (42 Records), in due giornate di ascolto collettivo, in cui suono e immagine si sono incontrati, fondendosi in un’unica materia. Quando il film omonimo ha cominciato a scorrere sullo schermo le note si sono assemblate con le immagini – paesaggi urbani, frammenti di interni privati, figure lontane, scorci di strade. La grana imperfetta della pellicola a restituire un senso di prossimità, come se tutto avvenisse in una dimensione sospesa tra intimità domestica e visione cosmica. Musica come un continuum, senza cesure. Le orchestrazioni che si aprivano e si richiudevano lentamente, lasciando emergere la voce di Andrea Laszlo De Simone, sussurrata, poi di nuovo sommersa nel tessuto degli archi e dei cori. I suoni, proiettati in ogni direzione del piccolo rifugio allestito per questo evento speciale lo riempivano fino a renderlo uno spazio vivo, tridimensionale, non un contenitore, ma un corpo risonante.
Due giornate, ciascuna con sei slot di proiezioni/ascolto – con un pubblico di massimo dodici persone – per un totale di centocinquanta ascoltatori, tra i fortunati che nella lunga lista d’attesa sono riusciti a vivere questa esperienza di tempo condiviso, un esercizio di concentrazione collettiva, espressione che, alla luce del presente, suona come un concetto quasi irreale. Solo il fluire continuo della musica, il ritmo naturale di un respiro, un tipo di attenzione ormai raro, quella che non cerca distrazioni, ma durata.
Nel panorama musicale di oggi, dominato da fugacità e frammentazione, Andrea Laszlo De Simone rappresenta certamente una presenza singolare. Il cantautore torinese ha saputo costruire un percorso musicale estremamente originale, che va dal pop orchestrale al progressive, conquistando un seguito appassionato anche oltre i confini italiani. In Francia, ad esempio, la critica lo considera ormai una voce ben riconoscibile, capace di fondere l’intensità della canzone d’autore con la solennità di un linguaggio orchestrale e lo dimostrano anche i tanti riconoscimenti ricevuti tra cui il Premio César del 2024 per la colonna sonora del film Le Règne Animal di Thomas Cailley.

Dopo l’esordio nel 2012 con Ecce Homo, disco sperimentale autoprodotto, nel 2017 pubblica con 42 Records l’album Uomo Donna e alla fine del 2019 produce e pubblica Immensità, una suite tra il pop e la musica classica, che gli conferisce il plauso della critica internazionale (le etichette con cui esce in Francia, Belgio, Regno Unito, Stati Uniti e Canada sono Ekleroshock e Hamburger Record). La popolarità in Italia, arriva nel 2021 con la ballad Vivo che lo consacra a voce amatissima al di un culto discreto ma ben radicato in un pubblico assolutamente trasversale e molto fedele. È qui che si colloca questo, tanto atteso, ultimo lavoro, un disco – per un totale di diciassette tracce che oscillano tra suite orchestrali e riflessioni interiori – e un poema visivo fatto da quadri filmici, definito da lui stesso “Un progetto audiovisivo in cui ho provato a portare alla luce i pensieri intrusivi, quelli che sono costantemente presenti dentro di noi anche quando stiamo pensando ad altro e che finiscono per proiettare lunghe ombre sulla nostra esistenza”.
Dal punto di vista timbrico, De Simone resta fedele a un impianto orchestrale stratificato, costruito attorno a corde, fiati e cori, ma introduce una dimensione più elettronica, quasi ambientale, che agisce come tessuto connettivo. Ne risulta un suono molto denso ma mai affollato, in cui la voce perde la funzione di guida per diventare parte del paesaggio: il canto si dissolve nella materia orchestrale. Una lunghissima ombra è la conferma che un disco può essere ancora un viaggio, non solo un contenuto.
A questo punto sarebbe necessario aprire una breve parentesi sul tema della nostalgia e della vertigine, aspetti che nella poetica di De Simone ritornano con frequenza. Un sentimento universale ed eterno certo, ma che da Mark Fisher in poi, con i “passati che continuano a infestare i futuri perduti” ha assunto un significato nuovo, quasi strutturale. Non più semplice memoria, ma eco di un immaginario interrotto, di un futuro che non si è mai realizzato. È una condizione che appartiene in modo particolare a quella generazione che, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, ha vissuto in tempo reale il passaggio dall’analogico al digitale – dall’ascolto fisico, tangibile, all’esperienza astratta e compressa dello streaming. Scrivere della nostalgia, o metterla in musica, è sempre un gesto rischioso. Si può facilmente cadere nell’autocompiacimento, nella retorica del passato come un momento migliore. Andrea Laszlo De Simone, invece, riesce a trattare questo sentimento con una disciplina rara, come se lo isolasse in una camera acustica, impedendogli di dilagare.
In Una lunghissima ombra la nostalgia non è mai nostalgia di qualcosa di preciso, ma una vibrazione sottile, una frequenza di fondo che attraversa tutto il disco senza dominarlo, è una nostalgia costruita attraverso il suono, non attraverso il racconto e si manifesta nei tempi dilatati, nella scelta di armonie sospese, in quegli intervalli che sembrano trattenere la risoluzione per un istante più del necessario. Gli archi e i cori, disposti in piani sonori ampi ma calibrati, evocano una memoria collettiva più che personale; i riverberi lunghi, quasi liturgici, restituiscono la sensazione di uno spazio che si allontana lentamente. Anche la voce partecipa a questa idea di distanza: non parla dal passato, ma da un tempo intermedio, un luogo in cui tutto è ancora in movimento. Ogni brano è come una variazione su un sentimento che non si lascia mai dire del tutto; e proprio in questa misura, in questa capacità di circoscrivere l’emozione dentro un linguaggio rigoroso, si trova la forza del suo lavoro. Tra le tracce: Ricordo tattile, La notte, Colpevole, Un momento migliore e, su tutte, la superba Pienamente, in cui l’arrangiamento e la voce nella loro “pienezza” evolvono in un minimalismo elettronico che ricorda molto le sonorità trip hop dei Portishead di Third.
Quando la musica finisce resta l’immagine o meglio l’idea di una lunghissima ombra: il tempo che passa e lascia una proiezione del sé che si allunga sulle cose, sugli affetti, o forse solo quella parte di ognuno di noi che sfugge alla luce, che non si mostra e, tuttavia, definisce la nostra forma.
Giornalista, si occupa di teatro, viaggi e società. Collabora, tra gli altri, con le riviste Il Tascabile e CheFare.