Leggendo una poesia di Roberto Bolaño, per il canale streaming di «Decamerette», ho involontariamente sostituito in piedi ci sono solo i cordoni / della polizia con in piedi ci sono solo i cordoni / della poesia, mi è parso da subito uno dei più bei refusi di sempre. L’idea di una nuova rubrica è nata quel giorno, un appuntamento che facesse l’esatto contrario di ciò che fanno i cordoni della polizia: avvicinare. Accorciare le distanze. Per ogni numero si parlerà di una, due o più poesie, di vari poeti, cercando un filo comune, facendo sì che versi lontani si tengano per mano.
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Prendiamo una distanza, dilatiamola fino a che non ne scorgiamo più il punto d’arrivo, fino a non ricordarne più l’origine, ovvero il nostro punto d’osservazione. La casa, il parco, l’autobus, la tomba, il mondo immaginario, il ricordo, l’incubo dalla quale abbiamo cominciato a misurarla. E la distanza a volte è un ritrovamento altre è una perdita. Tenendo le cose alla giusta (nuova) distanza le vediamo meglio, le riconosciamo per quello che sono, e allora – qualche volta – un’immagine perduta tra le altre significa di nuovo qualcosa, splende o brucia o entrambe le cose. Stiamo distanti, seduti nella nostra pietra nel parco, su una panchina sverniciata, e vediamo la persona perduta, andata, consumata dai giorni e dal tempo, a volte è un affetto che, un padre, una madre, che è morta, semplicemente, maledettamente, altre è un amore finito, male o bene (?), ma finito. Un amico, può darsi, cui non abbiamo dato ascolto e oggi il suo consiglio, da quaggiù, ci pare chiaro, logico; o un’amica con cui non ci siamo compresi e che non abbiamo saputo perdonare. Un viaggio, un luogo, una finestra e dove sporge lo sguardo, che segna il nostro percorso perché ci ha cambiati, segnati, ci ha privati di chi in quei mondi ci aveva accompagnato, tenuto per strada. O ancora: il ritrovamento e perdita si accompagnano e confondono se sovrapponiamo la nostra storia a una misteriosa già raccontata, già visitata. Nella distanza che scrutiamo troviamo, nei poeti che leggeremo oggi, ciò che non esiste perché inventato, perciò più vero del vero, ciò che non esiste perché è perduto, perciò indimenticabile, ciò che teniamo lontano ma non abbastanza, ciò che è chiuso per lutto, per privazione, perché lo temiamo, perché non lo conosciamo. Non abbastanza, mai abbastanza. E la distanza dai ghiacci, e le domande sui pinguini e su Omero, e sul vicino di casa. La distanza tra noi e la vita adulta, come cresciamo? Lasciando e cercando, perdendo e trovando. Niente di nuovo, tutto nuovissimo.
Corpo striato (Industria e Letteratura, 2021) di Riccardo Frolloni è uno dei libri di poesia più belli usciti quest’anno. Parliamo di una materia testuale robusta e potente, evocativa e precisa, disorientante e quieta, dolorosa e malinconica. Un gruppo di poesie viaggianti, in movimento, che partono da un lutto, da un vuoto, da una memoria che si forma avendo al centro già una crepa, e lì – in quella frattura dei ricordi – la perdita prova a ricomporsi e ciò avviene perché la scrittura di Frolloni mette in scena un percorso fatto di attraversamenti, di indecisioni, di irregolarità; un sentiero pieno di curve e domande, su ciò che si è, su come ci si misura con l’assenza, quanta (e quale) è la distanza da un padre che non c’è più. Un padre perduto ma che in quell’assenza brilla perché si ha a che fare con il suo lascito, col diventare grandi (e perciò sé stessi), con le questioni davanti alle quali arriviamo irrisolti, arriviamo dubbiosi, temiamo di non farcela, ma poi ce la facciamo. E ce la fa Frolloni che scrive un libro splendido, dal passo quasi nordamericano, con il verso che si allunga e ti prende per mano, che ti spiega la storia, srotolandola come un tappeto pieno di cose, un tappeto ondulato sul quale scivolare, inciampare, sedersi a prendere fiato, dal quale riprendere slancio. Una poesia molto bella fa così:
“movimenti IX
Visto al centro della stanza pensai noi ci muoviamo,
qualcuno sussurrava qualcosa, piangeva, ma tutti erano soffio
il corpo invece diventa subito corpo estraneo, immondo, zia Bruna
senza pensieri aveva pulito tutto, sistemato tutto, senza pensieri,
semplici le persone uscendo dicono ci vediamo e si voltano, salutano,
era movimento quello che mancava a mio padre, ingranaggio,
mi tormentavano micro pulsazioni, lampi, imprevisti,
e di questi soprattutto le mani, ora stringono un crocifisso
ora le mie mani sono impronta delle sue, le cerco nei sogni
le sento ogni volta che le richiamo, quelle bianche non erano
più quelle di forza e coraggio, scelgo così di accarezzargli i capelli
cortissimi, come voleva fossero i miei, ma c’era troppo bene poi.”
E viene da commuoversi leggendola, ma il coinvolgimento emotivo lo si spiega esaminando il modo in cui ci si arriva, in questo, soprattutto in questo, Frolloni è stato bravo. Questa poesia fa pensare alla danza, per il via della leggerezza e della solennità, per come la scena è presentata, per come le persone ruotino con il lutto al centro “noi ci muoviamo” ma non c’è una vera direzione, il movimento è condizionato dalla centralità immobile del corpo del padre morto. Intanto le persone salutano e vanno “ma tutti erano soffio”, in quel soffio dei vivi si nasconde il soffio del morto che sta evaporando, e dopo si palesa il soffio del figlio che resta, con la sovrapposizione immaginaria delle mani. Il soffio che sfuma nei sogni – in quella dimensione molto cara, per esempio, a Mark Strand – e rende tutto possibile, mischiando piccoli rimproveri al resto, finché il soffio del sonno diventa anch’esso doloroso, perché “c’era troppo bene poi”, e c’era prima e c’è dopo.
Andrea Accardi affronta la questione della non esistenza in altra maniera. Non parte da un lutto, ma da qualcosa che è assente per definizione e lo indica fin dal titolo: Nosferatu non esiste (Arcipelago Itaca 2021). Nosferatu non c’è, non potrebbe esserci, sta nel regno dei vampiri, dei morti, delle profezie che mai si avverano, degli incantesimi; nel tempo, insomma, del non può essere. Qualcosa o qualcuno di palesemente inventato non esiste, ma le cose che non esistono sono comunque vere, attengono al reale, perché con il loro mistero ci costringono a confrontarci con quello che c’è, che ci viene dato in sorte giorno per giorno. Nosferatu è il non morto, eppure non è vivo, i vivi siamo noi che controbilanciamo, in (e con) queste belle poesie le nostre mancanze, indecisioni, intermittenze, vacuità, difficoltà. Perciò Nosferatu (nella sua non esistenza) esiste in noi, ci somiglia, chi non c’è non può, chi c’è non riesce, ondeggia, esita, inciampa. La poesia permette ad Andrea Accardi di nascondere Nosferatu in ogni spazio bianco, tra i versi, lo fa diventare l’incubo (o la paura che ne abbiamo) nel quale osservare il mondo e il tempo con lo straniamento che temiamo ma che allo stesso tempo ci permette di rimanere a galla. Accardi ha una dote rara quella di saper osservare ogni dettaglio di ciò che lo circonda, ma soprattutto di scrutare con pazienza e ironia le nostre incongruenze / incompiutezze. In tal senso Nosferatu è un espediente letterario riuscito ma è anche lo specchio in cui ci riflettiamo senza trovarci. Una poesia molto significativa è questa:
“Mi tormentano immagini, fanno
male dietro gli occhi i ricordi
come questo che si accanisce adesso
strisce di sole sul bucato steso
un balcone sopra l’altro, il solito
latrato lontano, ovunque lo stesso
le stanze dell’infanzia degli altri
la dolcezza di un garage, poi la salita
una mano che saluta, l’altra che parte
lo sventolio feroce di alberi e case
fino a quando un’intera città
scompare dalle carte.”
Sono versi all’apparenza semplici, sono versi bellissimi che ben spiegano il senso del libro, l’ondeggiare tra i desideri che non si compiono, e le mancanze che acquietano quando si compiono sul serio, fino in fondo. La poesia comincia con immagini che tormentano, proseguiamo e non troviamo cadaveri, spargimenti di sangue, non troviamo morti. Vediamo invece flash luminosi di un passato lontano (ma non troppo distante) che sono talmente nitidi da diventare insostenibili, come quello “che si accanisce adesso / strisce di sole sul bucato steso”; un’immagine bella per definizione che riporta, però, il poeta indietro ed è quella la sua colpa (sua e dell’immagine), il ricondurci in un mondo in cui tutto forse poteva essere e non è stato (o non è stato come avrebbe potuto). E si va avanti di flash in flash “la dolcezza di un garage” o “una mano che saluta”, non ci sono persone eccetto quella mano eppure tutto è mancanza, nostalgia, perdita ed è colpa nostra. Accardi sa che per sopportare tutto questo si può arrivare solo a una sparizione totale, enigmatica / emblematica, al punto che l’intera città, per far sì che alberi, infanzia, bucati e garage spariscano, debba essere sottratta alle mappe. Accardi come la scrittrice tedesca Judith Schalansky fa un suo inventario minimo di cose perdute, che hanno la colpa e il difetto di tornare di tanto in tanto.
Storia e vita privata, vacanza personale o viaggio collettivo, mitologia e gioco, ghiaccio ed erosione, pietra e sabbia, divano o vagone di un treno si fondono e si intrecciano nelle poesie di Marco Corsi, raccolte in La materia dei giorni (Manni, 2021). Corsi manovra altre assenze (quanto è vasto il campo di ciò che manca), quelle consacrate dal tempo come le divinità lontane esplorate in lunghi viaggi o semplicemente nei libri, o quelle minime con cui ci misuriamo nel nostro quotidiano. Ed ecco che la materia di cui si compongono i giorni è fatta di Omero e del Messico, di Octavio Paz e di appartamenti europei, di incontri tra persone e con i pinguini, tra letteratura classica e spostamenti in metropolitana. Tutto accade e tutto è evocato. Emergono una misura e un controllo che spostano di continuo l’attenzione del lettore dal concreto all’immaginario, dall’oggi a un passato lontanissimo che spinge fino ai Maya. Queste belle poesie sono spirali, semicerchi, suonano classiche e moderne, sgusciando dalla metrica tradizionale alla prosa, le cose stanno insieme, vanno insieme, anche la materia della poesia, come quella dei giorni è fatta di miliardi di cose e tutte si tengono, e tutte sono necessarie al racconto. Il linguaggio di Marco Corsi è molto curato, il lessico è vario e attinge da molti mondi, l’immaginario si condensa però in accelerazioni fulminanti che fanno esattamente ciò che la poesia deve fare: straniare rimanendo nel mondo che attraversiamo, un monumento o una camera da letto sono la stessa cosa, lo stesso segnale, lo stesso pulsante. Click.
“fissavo l’ombra sul muro e morivo
prima di te, ogni istante prima
di guardarti dall’orlo del letto
in una spirale di acidi con grandi occhi,
fari gialli, eliche e tubi.
né l’ombra più si muove
sospesa in medico agguato
in silenzio come si conviene
nel tempo che non chiede cura.”
Pochi versi, molte cose. La morte evocata dall’ombra sul muro, ma non raggiunta, una morte d’osservazione, d’amore, di scelta. Una morte data dalla staticità dell’ozio o di una malattia, entrambe portano all’amore e di nuovo alla morte. Perché ancora ci troviamo qui in una parentesi di perdita, di dolore tanto forte da richiedere di anticiparlo: morire prima di vedere morire chi muore, fino a che “l’ombra più si muove” e nel silenzio che si conviene si apre un nuovo tempo in cui riparare, lasciare che le cose in qualche modo scorrano e si ricompongano in maniera diversa. Muore qualcuno che amiamo e anche noi moriamo, eppure restiamo, in quel “tempo che non chiede cura”, in quello spazio nuovo che altro non è che il rimedio. Corsi lo sa, ed è per questo motivo che in un’altra splendida poesia interroga il cuore e scrive: “[…] perché non ti rassegni / a chiudere gli occhi insieme / alle persone care”. Già perché? Dice Corsi, e dicono in qualche maniera Accardi e Frolloni.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
Altre info qui:
https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

Molto bello, grazie Gianni!
Tre bei libri, è stato un piacere