Leggendo una poesia di Roberto Bolaño, per il canale streaming di «Decamerette», ho involontariamente sostituito in piedi ci sono solo i cordoni / della polizia con in piedi ci sono solo i cordoni / della poesia, mi è parso da subito uno dei più bei refusi di sempre. L’idea di una nuova rubrica è nata quel giorno, un appuntamento che facesse l’esatto contrario di ciò che fanno i cordoni della polizia: avvicinare. Accorciare le distanze. Per ogni numero si parlerà di una, due o più poesie, di vari poeti, cercando un filo comune, facendo sì che versi lontani si tengano per mano.
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Prendiamo una sedia, una poltrona, un divano. Prendiamo un’altalena, una panchina, una giostra. Prendiamo un parco, un giardino, una villa, un museo. Prendiamo una fabbrica, una bottega, prendiamo un tram, un treno, una poltroncina di una sala d’attesa, prendiamone una di un cinema. E dopo prendiamo un campo aperto, sterminato, togliamo il confine, spostiamo il confine. Prendiamo un hotel, un’inquadratura in campo lungo e poi stringiamo sul primo piano. Prendiamo noi stessi tra le mani e domandiamoci cosa sia la gioia e cosa non lo è. Prendiamo la porta di casa e chiudiamola, stiamoci soli e l’attimo dopo spalanchiamola, accogliamo l’ospite senza domandarci chi sia, chi sarà, da dove viene, chi è stato. Accogliamo e dopo vediamo se sarà ingrato, indelicato, amabile, amichevole, sgradevole. Prendiamo la frana del luogo che cade, vediamo chi si salva e chi muore. Vediamo chi si salva come starà, cosa racconterà, dove andrà a posare quel che resta di sé. Chi va e chi resta, ci siamo o non ci siamo, restiamo e dopo in che modo guardiamo. Siamo soli o siamo in tanti, a quale tremito apparteniamo. Quali sono le cose che perdiamo giorno dopo giorno, cosa ci sfugge di mano e dagli occhi pare dirci Francesco Tomada. Qual è lo spazio/tempo in cui il nostro cervello e il nostro occhio si muovono, stiamo più attenti al fuoco o al fuori fuoco, è una domanda che pongono i versi di Bernardo De Luca. Dopo sono macerie o passi che non riusciamo più a fare? Qual è, invece, il limite sottile nel quale si insinua la solitudine per restarvi mentre noi svaniamo, scrive Emilia Barbato. Cosa arriva all’improvviso tra il tutto e il niente: un’immagine, una persona, un suono? Prendiamo e vediamo cosa ci dice Lorena Carboni.
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«Un luogo che gira su sé stesso
chiuso su sé stesso
visitato da tremori, apnee, palpiti.
Una palude, ma sotto di noi…»
Questa poesia essenziale di Lorena Carboni, tratta da L’ospite indelicato (Nem, 2020), racchiude in soli quattro versi molto dei nostri giorni, dei nostri tempi. Il luogo gira su sé stesso, come fosse un mondo, una giostra, chiunque di noi. Il luogo è poi chiuso su sé stesso, non ne esce, non offre spiragli. Giri ma stai sul posto, ma il posto – che ti piaccia o no – si sposta, avanza, prosegue, scatta in avanti. Tu non lo sai, tu luogo preda dei tuoi tremori, ansie, palpiti, brividi, esitazioni, rinunce, attese troppo lunghe, inesorabili giramenti di testa, mulinelli di gambe, danze sul posto. Disorientamenti. Qual è il nostro materiale esistenziale? Cosa ci spinge a muoverci verso l’altro o ad accoglierlo? Qual è lo scarto tra il luogo (noi) che gira su sé stesso e la parte di noi che compie il gesto (artistico o ordinario) che apre e che supera la fragilità dello stare sopra una palude e comincia a scivolare verso il tempo che viene, verso un nuovo immaginario che consente il respiro sopra il reale. Artisti, persone, animali, esterni, interni (molti), oggetti che evocano e rappresentano gli umori. Finestre. In un’altra poesia Carboni scrive: «Guardiamo appesi al panorama / case e viali incongruenti», ma cosa è incongruo? Sono davvero le case e i viali? O è incongruo il nostro sguardo che fatica a cogliere, a sostenere, perché non stiamo su una bellavista, non stiamo ammirando il panorama, noi al panorama stiamo appesi. Tutti i giorni. La stessa poesia va a chiudere con le distanze (o immagini della distanza) tenendo insieme pause e luci intermittenti vanno a interrogarci. Non siamo più noi a chiedere al nostro sguardo ma è la nostra capacità di osservare che ci domanda di essere all’altezza, di meritarci anche un solo momento di stupore.
«La miniera è chiusa da vent’anni ma qui tutto è ancora miniera.
Le case sono state costruite per i lavoratori, il museo si è preso lo
stabilimento dove si purificava il piombo, il pendio della montagna
è un accumulo di pietre scavate da là sotto.
Quando nevica d’inverno i fiocchi sono grossi e lenti, come quando
capovolgi quelle sfere trasparenti che contengono un paesaggio.
Rovescia ancora quella sfera.
Che la neve si raccolga nella concavità del cielo.
Che la terra discenda nel vuoto delle gallerie da dove è venuta.
Che tutti gli uomini risalgono salvi. Torna più indietro, prima di
silicosi e pleuriti. Fino alla festa di Santa Barbara, quando vestivano
i loro completi con ventinove bottoni dorati e lo sguardo fiero di
chi tutti i giorni scende nel mondo e lo spacca davvero.»
Un altro tipo di panorama, un paesaggio che non è più e che eppure è ancora. Nemmeno un terzo, ma un quarto paesaggio. Un luogo che è stato qualcosa, e quel qualcosa rimarrà per sempre anche se il luogo – la miniera – non c’è più. Le cose non se ne vanno mai davvero, perché sono attraversate dalle storie delle donne e degli uomini che le hanno toccate, abitate. Stavolta il panorama non ci guarda (come in Carboni), ma ci tira per la giacca, ci spalanca gli occhi. Francesco Tomada lo sa, lo ha sempre saputo che la bellezza sta in tutte le cose e che tutte quanto rimangono, là dove un bambino ha giocato, dove un uomo ha faticato una vita, un tremito, un pianto, un vecchio bagliore, una porzione di terra che s’apre, un odore di ruggine, ci riporta indietro, e perciò a noi.
Questa bellissima poesia sta in Affrontare la gioia da soli (Pordenonelegge – Samuele editore, 2021) e ci mostra un modo ancora diverso di vibrare, di stare nel luogo, mentre il luogo conserva tutto ciò che è stato. «Che tutti gli uomini risalgano salvi», scrive Tomada, e che siano tutti, i minatori che risalivano vent’anni prima, e prima ancora, e i loro padri, e tutti quelli che hanno scavato la terra con le mani, che hanno spaccato pietre, che hanno tirato fuori donne e uomini dalle macerie di un terremoto, che hanno affondato le unghie nelle lenzuola che avvolgevano il corpo di un genitore malato. Tomada sa che tutto il mondo sta nel giardino di casa e che si è soli, sa anche che non bisogna avere paura, non si deve smarrire la capacità di commuoversi, si deve provare a non sorprendersi quando torna un momento di gioia, non bisogna vergognarsene, non bisogna scappare. Leggo Tomada da molti anni, lo ammiro, quando parla dice poche parole, quelle che servono, fa così anche quando scrive poesie, non eccede mai, eppure ti porta con sé, ti passa il suo mondo che da quell’istante ti sembra il tuo, come quando scrive: «Adesso sono sulla punta della vita / da qui si vede lontanissimo / in ogni direzione». E sulla punta della vita, qualunque sia la nostra età oggi che leggiamo, stiamo pure noi tentando di trovare la giusta direzione in cui guardare, saltando il panorama, salendo su un’altalena, scendendo in una miniera.
«Tutto è destinato a svanire,
il profumo delle alghe,
il canto delle dune, una forma
nuova di solitudine – quieta –
si è insinuata con un’onda
pronta a raccogliere ogni cosa,
a soffocare qualsiasi grido.»
Qui il paesaggio è malinconico, ma la malinconia è tutto ciò che desideriamo. La luce è soffusa, ma ampiamente diffusa, lo sguardo d’assieme stringe nel pugno più cose, quelle andate, quelle mutate, e – ancora inconsapevole – quelle a venire. Tutto è destinato a svanire, scrive Emilia Barbato nell’attacco di una poesia molto bella che sta in Primo piano increspato (Stampa 2009, 2022), sembrerebbe – all’apparenza – l’opposto di quello che scrive Tomada, eppure no, eppure le cose vanno vicine. Tutto rimane, anche ciò che scompare, solo si trasforma. L’angoscia che traspare da questi versi di Emilia Barbato ci appartiene, tutti l’abbiamo scorta, ne siamo stati preda. La solitudine quieta è un simbolo di questi anni, qualcosa che striscia, si insinua, non ha bisogno di spingere, non necessita di una partenza traumatica, non c’è un evento scatenante, è essa stessa l’evento, il vuoto, la ferita. Non c’è salvezza, non c’è possibilità di gridare, ciò a cui teniamo viene trascinato via.
Per Barbato sembra trattarsi di una solitudine tremenda che ha la forza di uno tsunami, che colpisce come uno schiaffo nel cuore della notte. La solitudine quieta ci strappa dal sonno e dal sogno. Nei giorni del disorientamento, della perdita di ogni contatto, ci resta un primo piano increspato, una lunga inquadratura sulle nostre rughe. «stupisce la penombra / immobile della stanza», sono il secondo e terzo verso di un’altra poesia, e di nuovo: è davvero la stanza in penombra? O siamo noi? Siamo noi che ci stupiamo di questo chiaroscuro statico dentro il quale (resi)stiamo, il nostro habitat, il nostro labirinto che ci lascia sgomenti perché sono le nostre quattro mura e anche lì dentro ci disorientiamo. Emilia Barbato è tagliente e delicata, dai suoi versi traspare un dolore e una sorta di furibonda attesa che non muove una foglia, che tiene le tapparelle abbassate, che non sente una mosca volare.
“È come la risoluzione di un problema
angoscioso, da molto tempo
presente e concreto nei sintomi fisici
che procura,
come lo sciogliersi improvviso del pianto
all’urlo che lo ha soppresso
o forse l’abbandono del corpo
prima dell’incoscienza.
Come la gioia nel salto
oppure lo sguardo che cerca e trova
ciò che vuole,
come la stanchezza dopo
o il trepido tremore prima.
«Quando arrivi è meraviglioso».”
Esiste un altro tremito, un diverso tipo di disorientamento, così come un differente tipo di attesa. Le parole sono le stesse, simili gli aggettivi, ma lo scenario è tutt’altro, il paesaggio distrutto – se è andato distrutto – è lontano, alle spalle, qui il territorio è nuovo ed è in divenire, tutto in questa poesia molto bella di Bernardo De Luca fa pensare al futuro. Il testo è contenuto in Campo aperto (Amos edizioni, 2022) e anche il titolo del libro fa pensare al futuro, a un territorio di possibilità, di cose da fare, di novità. Naturalmente non si tratta solo di questo, in questi versi che giocano con la similitudine, con i ripetuti come che non vengono a dirci questa cosa somiglia a quest’altra, ma questo stato d’animo si interseca a un altro, lo precede, lo segue, lo completa. Risolvere un problema angoscioso, il pianto che si scioglie all’improvviso, il corpo che s’abbandona, si rilassa prima dello stato d’incoscienza, e, più avanti, la gioia di quando saltiamo che è vicinissima allo sguardo (eccolo di nuovo) che cerca e – almeno qualche volta – trova ciò che vuole, e qui genera il tremore (un diverso tremito) che sfuma nella meraviglia finale. Il disorientamento di De Luca viene dal peso di cose lasciate alle spalle, come succede, e dalla tensione che va a sciogliersi insieme a un altro tipo di paura, quella che precede l’esplosione della gioia. Esiste un paesaggio che è fatto anche di finestre aperte dove il panorama è deciso da noi, stiamo provando a costruirlo, procediamo per tentativi, non conosciamo ancora bene la strada, ma se è il caso saltiamo come quando eravamo bambini, e troviamo la meraviglia.
I versi di Bernardo De Luca si muovono all’interno di uno scarto che si sposta tra il reale e il possibile, un palcoscenico in cui il confine è incerto (e quando mai non lo è) ma in quell’ambiguità proseguono perché non c’è urgenza ma c’è speranza di muovere i passi, di scovare un orizzonte, ecco, meraviglioso. In un’altra poesia leggiamo: «Qual è il momento, quando finisce l’ansia / e dal pavimento s’alza il desiderio», qual è e quando è, e mi pare che debba essere adesso, e mi pare anche che sia un buon momento per chiudere. Dal pavimento di De Luca s’alza il desiderio, dalla stanza di Barbato si leva la penombra, dalla miniera di Tomada fuoriescono ragazzine che ballano, il luogo di Carboni per un istante – questo – smette di girare.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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