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di Fosca Navarra
Sfortunatamente, ho trascorso del tempo in quel posto lì quando avrei dovuto magari trascorrerlo in qualche città universitaria piena di locali. Non posso farci nulla, è un chiodo fisso: sono passati cinque anni, ma penso ancora a tutta la vita che avrei potuto ficcare in quei giorni concessi, invece, all’alienazione.
Credo fosse questo il motivo che ci spingeva a quel folle clinamen per cui un giorno odiavi qualcuno e quello dopo ci facevi amicizia, e viceversa. Avevamo tutti un gran bisogno di toccarci e stringerci e prenderci a spintoni, forse perché il nostro recinto ci sembrava troppo irreale. Dunque, non facevamo davvero nient’altro che interagire in maniera disperata, con ogni mezzo e trucco possibile tramite il quale strappare un bacio o assestare un ceffone.
L’importante, per noi, non era di certo costruire rapporti duraturi. L’altro era solo uno strumento del nostro bulimico sentire, principio non scritto sul quale ci si trovava tutti in accordo. Quasi nessuno si sottraeva al gioco: in fondo, eravamo sulla stessa barca. Così, negli anni vissuti con una libertà che ogni tanto non poteva fare a meno di passare sul filo del rasoio, mi sono domandata se ai pesci agonizzanti che in un modo o nell’altro riescono a rituffarsi nel mare calmo, se a questi pesci, mi sono chiesta, rimanga poi qualcosa – un lampo d’occhio, un dimenarsi – dell’altro.
Mi tormento con la dissezione di ogni ricordo a lei legato, intanto continuo a aspettarla in una cittadina non lontana dal fulcro di tutto quanto ci ha reso non saprei dire quanto intime o quanto estranee. In quei cinque anni avevo chiesto notizie di lei a chi avrebbe potuto averne: gli altri superstiti, in gran parte provenienti da quelle zone lì. Qualcuno l’aveva rivista: pareva stare meglio. Ma, in effetti, come avrebbe potuto stare peggio? Lei, io, tutti quanti: come avremmo potuto spingerci oltre il capolinea?
Penso e mi tormento, mi strappo le pellicine attorno alle unghie. È la presentazione del libro di T., in un locale con il soffitto basso e i tavoli in graniglia. Durante il viaggio, per via dei ricordi che riaffioravano a causa di associazioni paesaggistiche – il diradarsi del meridione e del salmastro, le apparizioni ritrose di certi borghi nella nebbiolina fredda e la sparizione dei caratteri metropolitani – ho frugato nella rubrica fino a incontrarla in una foto, accovacciata in mezzo a due cani di grossa taglia.
Soltanto cinque anni prima, mia madre ci aveva detto “Sorridete!” nel cortile di dove eravamo. L’una accanto all’altra, pallide e dagli occhi lucidi di stanchezza, tentavamo un sorriso; e di fingere anche solo per un attimo di essere due diciottenni come tante, magari al parco, con le capigliature indisciplinate – lei portava spinelli di dread sulla nuca, io i rimasugli corti di una mutilazione quasi indolore –; e un pensiero qualunque a cui rivolgerci per stimolare sui nostri visi un sollevamento di angoli della bocca e un vago splendore di gioia nello sguardo.
In quello scatto risultiamo spaurite, due animali notturni sorpresi da un flash.
Il bus traballa, alterno la sua foto alla schermata di una chat vuota.
“Sorridete” aveva detto mia madre a noi che venivamo al mondo in quel momento lì, in procinto di essere sputate fuori da quel posto lì, con un disperato bisogno di farci male che soffocava il bisogno ridicolo dell’amore altrui, di chimere come la serenità e la soddisfazione. Un disperato bisogno che si vedeva tutto, ma che io addirittura sentivo pure dal gelo delle sue dita, dalle scapole dure e dall’odore di cenere che veniva dal suo maglioncino, come lei doveva sentirlo in me, a suo modo.
Perciò le ho chiesto di vederci.
Volevo scoprire se le bestie dentro di noi fossero ancora in grado di riconoscersi.
In quel posto lì era stata questione di istanti: lei, seduta per caso accanto a me in mensa, mi domandò qualcosa a proposito dei pasti, perché era appena arrivata; ma anche dopo che provai a risponderle con esattezza non smise di parlarmi, di comunicarmi le sue osservazioni sugli altri, sul cibo, sul posto in generale. Aveva molta voglia di stare con me, il che mi risultava insolito quanto eccitante, nell’unico significato, per ossimoro, che si possa dare all’eccitazione. Suppongo che sia così, per un calamaro o una triglia in una rete, trovarsi imprigionati con un altro esemplare della stessa specie. Una scossa dentro che rivitalizza finché non subentra uno sguardo d’insieme, il profumo del mare o quello degli alberi nei pressi del cancello.
Non so dire quale sia stato il preciso gancio tra le nostre fragilità, ma lei mi aveva folgorata. La osservavo sminuzzare il cibo, maneggiare le posate con le mani bianchissime dalle unghie nere. Invidiavo il modo in cui le ossa odiavano il suo corpo fino a tentare di uscirne. Aveva un viso pallido, palpebre da bambola, lineamenti dell’Est.
Non era bella, ma mi piaceva.
Una sera stavamo camminando fianco a fianco nei corridoi e ridevamo, così, per fare qualcosa. Avevamo baciato due uomini, due vecchi.
Lei aveva un ragazzo, sì, e conviveva anche, ma quando arrivi in quel posto certe cose non contano più niente.
“Buonanotte” mi disse, prima che il corridoio diventasse deserto.
Rimasi in balìa del vuoto, in un corridoio di una prigione soft nella periferia di una cittadina dell’Italia centrale; lontana, remotissima, semplicemente avulsa da tutto.
Avrei tanto voluto baciarla, tanto. Ma non per desiderio, neppure per affetto.
Volevo solo provare, non so, a comporre qualcosa unendo i nostri frammenti, le parti sane che pure dovevamo possedere in fondo alla melma di tutto il resto.
Dopo tanto tempo, non so cosa pensassi di ottenere da quel bacio.
Ma credo che sia diventato importante quando ho capito che non l’avrei ottenuto. Faceva parte di una vita alternativa e migliore, per forza di cose.
Cinque anni dopo. A pochi minuti dalla destinazione, mi arriva un messaggio di risposta. Parole d’affetto, cuori, a più tardi allora.
Termino il viaggio con un batticuore di gioia e paura. Forse anche di pentimento.
Guardo gli occhiali sul petto, i libri che spuntano dalla borsa. Penso ai miei diciott’anni come a un vecchio continente a cui ho rinunciato. Perché mi costringo a voltarmi?
La gente arriva, la stanza si riempie, manca ancora lei. Mentre svolgo all’infinito il nastro di pellicola che mostra l’edificante incontro di lì a poco, l’amico col quale dormirò mi chiede se va tutto bene.
Nel frattempo, fuori imbrunisce.
Una sera litigammo, ma ho rimosso le ragioni della sua collera. Era un suo momento, come a me accadevano i miei.
“Lasciami in pace!” gridava, “Ti ho detto che te ne devi andare!”. Più e più volte.
Mi sentivo come se me l’avesse detto mia madre: la sua autorevolezza era arrivata a questi livelli perché era magra, aguzza e incomprensibile e se una parte di me desiderava guarire, un’altra voleva superare questa mia insulsa linea di confine – è malata ma, potrebbe essere sana ma – e sprofondare fino a uscire fuori dalla parte opposta: essere come lei, essere lei.
Ne ebbi paura, quando la vidi scappare come una furia in cortile. Attesi in mezzo agli altri, a quelli che non contavano, per forse dieci minuti forse tre secoli, prima di raggiungerla. Sedeva a una panchina, piangeva.
Mi sentivo straziata da un dolore non mio, e dunque non dovuto, a cui non potevo dare né suggerire niente.
“Mi dispiace per prima, sai. Sono stata ingiusta con te” disse.
Poi, come se mi avesse dato un tacito permesso, smise di piangere per permettere a me di cominciare. Mentre mi disperavo, mi accarezzava la testa come se avessi avuto un’età qualsiasi in cui si è impotenti e buoni a niente, e si piange e basta.
Ho pianto un’infinità di volte in vita mia, ma mai come in quel momento ho avuto la sensazione di volere esattamente solo quello. Piangere per continuare a ingrossare il mare agitato a cui poco prima lei aveva dato inizio.
Appena la scorgo, nel buio del corridoio che porta alla sala, riconosco la pelle. Indossa un vecchio cappotto di lana, guanti dalle dita mozzate, una sciarpa. I capelli non sono più un intrico; il suo sguardo invece sì, conserva ancora i viluppi esausti delle pupille.
Solleva una mano, incerta. Mi sta salutando.
“Ciao, Dava” le dico, e mi alzo in piedi.
Pronunciare il suo nome equivale al fiato di tromba: comincia in me una guerra cardiaca sul campo dei ricordi. La vedo, Dava è lei, sempre lei. Mi risulta difficile definirla cambiata: semplicemente, è passata da uno stadio all’altro della sua malattia. L’ho conosciuta con la febbre e gli spasmi, ora ha un’aria del tutto debilitata.
“Scusa il ritardo” mi dice in un sussurro, quando sono a un passo.
Arrivo a sentire il suo respiro, ma nonostante la vicinanza la mia guerra interiore non ha più entusiasmo; si trascina controvoglia, in una fase terminale in cui gli ideali hanno perso di importanza. Anche Dava ha qualcosa in meno: ricorda una bambina povera, una fiammiferaia.
“Non fa niente. Vieni, usciamo fuori” le rispondo.
Allora la prendo sottobraccio e la porto via, lontano.
Parliamo brevemente, al buio di una stradina poco distante dal locale.
“Stai ancora con il tuo ragazzo?”
Il viso le si contrae. La mano che tiene la sigaretta le trema più forte, adesso.
“Oh, no, è davvero finita. O comunque lo spero. Sono scappata da dove abitavamo e ha cominciato a perseguitarmi. Brutte cose. Davvero brutte.”
“Mi dispiace. Ma ora che fai?”
“Ogni tanto lavoro come cameriera, quando capita. Gli studi, mai finiti” dice, e soffia via il fumo della sigaretta. “Vuoi?”
“No, grazie. Ho smesso.”
“Non fumi più? Che brava.” Non sento meraviglia nelle sue parole, anzi. “Ma lo vedo che sei cambiata. Sapevo che ce l’avresti fatta.” China il capo, si guarda i piedi negli stivaletti che stridono contro la ghiaia. “Ne ero proprio sicura” continua tra sé.
Non ho repliche al suo dolore. Potrei chiederle se continua a farlo, ma sento di conoscere la risposta. “Si è fatto tardi” dice. “Forse è meglio…”
“Sì. Forse è meglio” rispondo, mentre la fisso negli occhi che hanno pianto il mare agitato di cui mi credevo parte e da cui adesso sto scappando, fortunatamente.
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Fosca Navarra nasce nel 2000 a Napoli, dove vive e studia lettere classiche all’Università Federico II.
Ha pubblicato racconti su diverse riviste online tra cui Quaerere, Micorrize, Narrandom e Altri Animali.
Suoi testi poetici sono apparsi su Suite Italiana e Interno Poesia.
Nel 2023 pubblica la sua raccolta poetica d’esordio Perdutamente (edizioni Ensemble).
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
