di Letizia Dimartino
Melina è il suo nome.
Ha capelli verdi, occhi gialli. Ha pure tre sogni. Le si attorcigliano lungo le gambe, su per il corpo allungato quando la sera cerca, inutilmente, di pensarsi stesa sul letto al di là della sponda e crede di vedersi immobile e sdoppiata. Succede invece che, al posto della visione, difficile da immaginare, le si inerpicano – i sogni – per le gambe immobili e tese, che invano cerca di rendere molli. Arrivano essi immediatamente alla testa e vi dimorano nei rimanenti cinque minuti necessari al raccoglimento.
“Cara mia Melina, hai dimenticato più cose andandotene. Allora ho fatto finta di parlarti, ti ho detto: oggi racconterò una storia, una storia breve e concisa, tu l’ascolterai, poi verrai a dormire, finalmente per sempre, in quella stanza bianca che così poco ti piace, ma piace a me perché fatta di luce, priva di tende, assolata e vicina alle nuvole. La storia è una poesia, la poesia che cerco sempre nella mia mente, quella che arriverà prima o poi nella tua vita e sarà la poesia del sempre e del tutto. L’unica che io sappia dirti. Quella che tu ascolterai e seguirai. Io, quando tu la ripeterai, camminerò ai margini della tua vita confusa, rassettando e raccogliendo i tre sogni che ogni sera si attorcigliano lungo le tue gambe. Le sentirai finalmente sciolte, immobili ma lente, molli di carne ossa e sangue. I tre sogni saranno dentro la mia poesia, non la declamerò, ma tu l’ascolterai lo stesso perché ti giungerà oltre la spalliera del letto e ti vedrai stesa – figura dormiente – sdoppiata e leggera. E sarai tu, in questi versi rilassati, pronta a sciogliere il nodo ai capelli che stringe i pochi pensieri di troppo, quelli che attanagliano la tua piccola mente inquieta. Ascolterai la poesia dei tuoi momenti qualunque, ogni parola ti giungerà sommessa, sfoglierà giorni di calendario, trapasserà ore immaginifiche, si poserà sul tuo sguardo e strapperà, straccerà, i tre sogni che ti hanno fatto fuggire e urlare lungo le scale del mio palazzo che mai ha ascoltato simili urla. Il tuo grido mi è giunto ed io ne ho raccolto l’ultima frangia del lamento contenuto, per trasformarlo in poesia. Nessun computer potrà conservare il canto compresso dei miei versi slabbrati ma io so, per primo, quante parole contiene il silenzio di questa poesia che tu mi strappi e chiedi da giorni e mesi. So che vuoi parole silenziose: ‘quelle che non giungeranno mai’. Così dicevi commossa, con il brillio dei tuoi occhi gialli che riempiva la stanza bianca, ed era luce sulle tue parole. Ora che te ne sei andata attendi pure versi imbrigliati perché nessuna magia verrà più fatta.”
“Penso adesso a quando si faceva sera e il cielo aveva colori tenui e diversi, nella tua villa antica calava una frescura soffice sulle verande in faccia al mare lontano. Gli alberi fermavano le foglie, la stanchezza finiva, i suoni erano velati, il dialetto delle donne in musica di labbra. Cenavamo noi due mentre le stelle apparivano, i falò si spegnevano e tutto era silenzio e profumo. E il sonno appesantiva la notte, i cucchiaini sul piattino del dolce tremulo, i racconti che mettevano paura mentre i cani si raccoglievano sotto la tavola. Tornavamo a casa nostra dopo aver salutato i massari, i lumi accesi e il buio improvviso oltre l’orto. Il nostro letto bianco era rifugio, dormivo senza far sogni, o così mi pareva. L’estate era quella desiderata. Indossavi un abito verde e credevo che quegli anni non sarebbero mai finiti”
“Molte volte caro Diego, l’urlo di cui tu parli io non l’ho sentito né emesso. Chi dunque ha gridato al mio posto il giorno in cui ho sceso le lunghe scale di casa tua, stentando non poco per il peso di una valigia troppo scomoda e pesante?
C’era silenzio in fondo alla mia gola secca, bruciava di dolore compresso ma tu non hai potuto sentire molto delle piccole frasi che ti dicevo, scalino dopo scalino. Del fuoco della testa: di quello avresti dovuto sentire l’odore acre… ma tu pensavi alla poesia che mi avresti detto un giorno. Quale giorno? le attendo, le parole sparse. Ma che colore avranno, e che sapore? gusterò le vocali che si attardano sul foglio bianco – perché ci sarà un foglio bianco – e finalmente divorerò le tue parole nel silenzio che conosci bene. Il silenzio dei miei occhi, della mia voce, il silenzio che inseguo. Tu invece insegui i miei tre sogni. Vuoi conoscerli, li inventi, li immagini, li vedi strisciare per le mie gambe tese. Ma io, io li conosco i miei tre sogni? Mi accompagnano da anni, credevo di averli trovati fra le pieghe delle lenzuola stropicciate del tuo letto disordinato, nella camera bianca vicino alle nuvole minacciose oltre la finestra, nel miagolio del tuo grigio gatto che sfugge al mio minimo gesto, tra le trame del tuo unico maglione color arancio, intrecciati ai riccioli corti della tua piccola e tonda testa. E ancora potrei dire. Ma ricorda, non li conosco i miei tre sogni e non sono andata via perché li cerco da sempre. La tua poesia dovrebbe dirmi che le mie gambe sono finalmente morbide, niente si attorciglia intorno ad esse ed io mi vedo oltre la sponda del letto, supina e dormiente in altro letto, ormai, in altra casa, in un misero pianoterra vicinissimo ai rumori di una strada di periferia, fra le nuvole del traffico senza colore. Chi, allora, ha gridato quella mattina durante la mia discesa lenta e impacciata ? Non aspettarti più niente, perché poco verrà da me e io sono incapace di fare magie. Nessuno cambierà i miei tre sogni in semplice realtà. Né permetterò mai che tu lo faccia, anche se con una splendida e unica poesia. In certe ore del pomeriggio penso di stare dentro un colore. Potrei sceglierlo fra i freddi e i caldi, invece resto in sospeso, in una incertezza che solitamente non mi appartiene. E vedo il grigio trasformarsi in azzurro, la polvere accendersi e il sonno prendermi pian piano. La bolla frantumarsi. Un sonno che si fa profondo e breve. Senza sogni. Mi alzo, frastornata. La mia vita racchiusa nel colore, il blu dei monti e delle nuvole che stanno in questo cielo vespertino. L’azzurro che mi ha accompagnata negli anni, nelle cose e nelle case. Il turchese di molti occhi, e io lì dentro. Anche il mio letto è blu o così mi appare. Così.”
“I miei capelli verdi? Non lo so più. Incerta e sospesa sempre. E poi, sai, io lo penso che non ci sarò più. Da noi il gelsomino fiorisce ogni estate e ha fusti attorcigliati, gli ulivi rimangono per sempre e con le foglie come impolverate, le pietre dei muri ogni tanto si sfaldano striate dai licheni color ruggine. E questi monti sono uguali e hanno un azzurro e un blu delicato che li rende morbidi. Io resterò qui, in questo punto di Sicilia che si stravolge piano piano, al capo estremo del mondo che tutti conoscono. E poi dovrò lasciare il cielo basso di questa città, il vento che la sopraffà in tutte le stagioni. E le case che hanno l’odore di un luogo che è come sconosciuto agli altri, che si sente solo qui, nelle mattine di maggio e nelle sere di settembre. Io quando si chiude alle nostre spalle il cancello della casa di campagna, un saluto lo mando agli alberi, agli ulivi bassi, al banano che volteggia, agli eucalipti piegati, ai tanti uccelli che nei due mesi mi hanno svegliata e mandata anche a dormire, ai tocchi del campanile, ai forti venti estivi. Ai giorni caldi e lunghi, allo sfinimento, agli anni passati che sono solo memoria, alle canzoni che cantammo da ragazzi, agli amici e agli amori. Ecco, questa può essere la fine. E il tempo che resta dentro. Io sarò lontana. Io che ho amato il grido di mia madre e quello del colombaccio, della gazza petulante e di mio padre lungo le curve degli Iblei, dove sostava per pochi attimi infuriati ad un abbeveratoio antico, dall’acqua gelida. Io che lascio poco, con gli occhi aperti voglio stare. Aperti. Se sono un tiglio o un’allodola nessuno lo sa con certezza. Ma noi, io e te, potremmo essere un dolore unico e universale, una felicità senza sponde, un suicidio perfettamente calcolato, una malattia incurabile come il raffreddore. E potremmo scaldarci in un contatto talmente equinoziale che tutto poi sarebbe irragionevole. Anche il computo ritmico delle stagioni. E non posso spiegarti questa fatica disumana per conservarmi nel libro dei vivi. Come vedi ti scrivo queste cose che rimangono incerte, e forse morte, tra la musica e il tempo.”
“Mi è capitato di amare con le unghie. Con i vestiti. Con i giorni di vento. Con un foulard. Con un rossetto. Ma tutte le volte ho sofferto. Guardavo negli occhi e mi distruggevo. Fu troppo tempo fa.”
Diego legge e poi si alza e va alla finestra. La sera della città è dietro i vetri della sua alta casa. Poco vi giunge, la camera è invasa d’altri rumori: un computer che attende, acceso, d’essere accarezzato, un gatto grigio che sogna sussultando sulla poltrona, il ronzio del frigorifero quasi vuoto, la spia rossa e ticchettante del vecchio scaldabagno. I monti dietro i vetri, il cielo basso e cupo, i carrubi isolati, ulivi contorti e argentati, una Etna lontana e coperta da scie trasparenti e celesti, oltre gli Iblei. Ad un uomo isola si giunge dopo un naufragio: può essere una tempesta improvvisa o al contrario un’onda annunciata da basse nuvole gonfie di vento, avvisaglie sottovalutate o volutamente ignorate. Gli uomini isola sono lontani dalla realtà, sono un mondo ideale, sono una casa che durerà nel distacco dal rumore della vita, sono la perfezione in un mondo imperfetto. Sono il bacio mai più dato, la sera che si appresta, il sorriso mancato, la carezza calda. Sono il tempo che si avvicina benevolo, la fortuna ritrovata. La vita che rinasce. Sono l’età che scompare. La bellezza in ogni cosa. Sono il futuro breve. L’uomo isola accoglie, finalmente. Ma nell’incertezza. L’uomo isola si ama, e basta. Diego non attende più. Lì, fra le pieghe delle lenzuola stropicciate del suo letto disordinato si attarda un capello verde. Apre la finestra, il primo infisso, il secondo infisso e poi nel vuoto, leggero, il capello si attorciglia, si slarga. Galleggia nell’aria della notte sopraggiunta. Sì, nessuna magia è stata fatta.
(Foto di Milad Fakurian su Unsplash)
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