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Pubblichiamo un racconto apparso originariamente sul numero 35 di ‘Tina, che ringraziamo.

di Francesca Pellas

La prima cosa che ho fatto quando mi sono trasferita a New York è stata cercare dei punti di riferimento: un negozio per il caffè, uno per la pasta fresca (ravioli e pansotti), una brava estetista che sapesse fare una bella manicure e un tabaccaio di fiducia per le sigarette di contrabbando.
A New York il prezzo delle sigarette è un problema: costano dai dodici ai quindici dollari. Arrivata dall’Italia, dove un pacchetto si paga in media cinque euro, qui ho iniziato a chiedermi se non fosse il caso di smettere di fumare del tutto. Poi ho trovato il tobacco shop che per motivi misteriosi vendeva le Malboro a otto dollari, e mi sono detta: ho scoperto la Mecca. Ho capito quasi subito che per godere del prezzo agevolato era importante farsi riconoscere come abitante del quartiere: con i volti familiari il prezzo scendeva, con quelli sconosciuti saliva.
Io avevo trovato il mio tobacco shop dietro la fermata Myrtle-Wyckoff della metropolitana, sotto al cavalcavia che taglia in due Myrtle Avenue. Nei primissimi tempi abitavo lì vicino, in una delle zone più brutte della città. Una volta, molti mesi dopo, ci avevo portato il mio amico P. Volevo fargli vedere la mia prima casa, il negozio delle sigarette, e il primo posto dove avevo avvertito, se non un affaccio di felicità, almeno una pausa dalla malinconia estenuante che mi aveva invasa appena mi ero trasferita: il discount “Extreme” (il perché lo vedremo poi).

Abitare a New York era un sogno che avevo coltivato a lungo. Ero atterrata all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy con due valigie, una ventina di libri sistemati tra i vestiti, una nave in bottiglia come portafortuna e un foglio con il verso di una canzone inquadrato in una cornice blu: “Sappi che tutte le strade, anche le più sole, hanno un vento che le accompagna. E che il gomitolo, forse, non ha voluto diventar maglione. Che preferisco non imparar la rotta per ricordarmi il mare”. Una frase che porto con me dappertutto perché sono convinta che mi protegga.

La malinconia è arrivata improvvisa la mattina dopo, inaspettata. In quei primi giorni, mentre cercavo casa, dormivo da una ragazza argentina incinta di otto mesi e dal suo fidanzato, un insegnante di arti marziali brasiliano. Mi sono alzata, ho aperto la finestra, e sono stata avvolta da un sentimento grigio che non avevo previsto. Io mi aspettavo solo la felicità: credevo che una volta arrivata dove volevo vivere sarei stata felice, e basta. Invece mi sono ritrovata con un grumo denso di sensazioni molto diverse. “Ho realizzato il mio sogno!”, ho pensato. “E adesso?”.
E adesso – ho capito – ero da sola dall’altra parte del mondo e tutti quelli a cui volevo bene erano di là. Lì non c’era nessuno e non avevo niente: avevo lasciato tutto per una città. “Che cazzo ho fatto?”, ho detto a voce alta rivolta al cortile.
L’unica cosa che mi è venuta in mente in quel momento è stata andare a mangiare. Mi sono detta che prima di cominciare quella vita sconosciuta potevo regalarmi una giornata: un pranzo, una passeggiata, un film. Distrarmi facendo qualcosa di bello, almeno per qualche ora. Ero fortunata, perché non stavo fuggendo dalla guerra, nessuno mi aveva obbligata a partire, l’avevo scelto io. E allora che cos’era quella tristezza? È così che ho scoperto le uova alla Benedict, pensando poi per le due settimane successive che fossero una cosa speciale cucinata solo in quel posto lì, e non un piatto che fanno ovunque. Dopo sono andata al cinema Regal di Union Square a vedere ‘Brooklyn’ con Saoirse Ronan, tratto dal romanzo di Colm Tóibín, in cui la protagonista emigra a New York dall’Irlanda alla metà degli anni Cinquanta e all’inizio soffre di tremende crisi di nostalgia (quando ho comprato il biglietto non sapevo nulla della trama). Vicino a me era seduta una coppia di anziani e io a un certo punto piangevo così tanto che ho pensato: “Be’, se si girano e mi chiedono se sto bene, ho la giustificazione migliore del mondo: sono emigrata ieri”.

In quelle prime settimane passavo il tempo a entrare in tutti i supermercati per spaventarmi guardando il prezzo delle cose. Dentifrici, deodoranti, shampoo, bagnoschiuma, era tutto follemente caro. Entravo e controllavo, facevo confronti, segnavo. Un esempio: il deodorante che avevo sempre usato costava dappertutto sette dollari e novantanove (in formato normale, non grande). I dentifrici, dai quattro dollari in su. “Ma che prezzi sono? Come farò?”, pensavo sconsolata. Poi, proprio come il miracolo del tobacco shop, è successo il miracolo del discount Extreme. E tutto in pochi metri di strada, sotto al cavalcavia delle fortune. Un giorno sono entrata in questo negozio dall’aspetto ributtante e ho trovato un cesto (un cesto!) pieno di deodoranti spray della mia marca, in formato JUMBO, a tre dollari e novantanove. In quell’istante, per trenta secondi, la malinconia si è diradata, un raggio ha squarciato la nuvola grigia, e ho sentito che qualcuno stava vegliando su di me.
Quel giorno ho capito che spesso le cose non sono veramente nascoste, ma che basta sapere dove cercare, e che se non sai dove cercare a volte sono loro a trovare te. Ho capito anche che per tutto quanto, da qualche parte ci sono sempre i bottoni giusti da premere: esistono soglie segrete, superate le quali la città inizia a svelarsi.

 

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1 commento

  1. Banale, se ogni emigrato a New York volesse/dovesse scrivere la sua storia non basta lo spazio alla biblioteca del congresso…

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