di Naima Bolis

Con Gli iperborei, esordio narrativo di Pietro Castellitto, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una lomografia: scatti eseguiti senza guardare nell’obiettivo, saturazione portata al massimo, esposizione mai bilanciata, sfocature che compromettono l’immagine; scattare senza pensare, non preoccuparsi di nessuna regola, l’obiettivo come prolungamento non interferente del sé.

È un romanzo ibrido, in cui fiction e autofiction si sovrappongono senza che il margine di vantaggio di una metta in secondo piano il sospetto dell’altra; la struttura si serve di elementi eterogenei e alterna incursioni metaletterarie a flashback che si incistano nella narrazione, a tratti la divorano in rapide metastasi, contribuendo a un andamento irregolare e allucinato che si riflette sia nell’evanescenza della trama, sia nella scrittura e nel linguaggio.

La storia, narrata in prima persona da Poldo Biancheri, ventisettenne romano figlio di un noto giornalista e cresciuto fra i quartieri di Roma Nord, ha qualcosa di claustrofobico senza rimedio, nonostante l’ambientazione in luoghi tutt’altro che angusti. Case visibili dall’aereo, terrazze ottagonali che creano l’illusione di camminare dritto all’infinito, barche attrezzate per ospitare un circo volante: in quello sfarzo che azzarda la suggestione degli anni Venti di Fitzgerald e di Gatsby, l’apnea è la sensazione che meglio viene resa. A serrare il respiro è la paradossale costrizione in cui i protagonisti, liberi e libertini di maniera, vivono: una prigione di eccessi, che per paradosso crea un vuoto impossibile da riempire e che anzi si amplia nel continuo sfondamento di ogni limite, soprattutto quello corporeo.

Poldo e gli amici a cui è legato fin dall’infanzia, ovvero Guenda, Stella, Ciccio Tapia, Aldo, Edoardo, trascorrono le giornate nell’attesa della festa per il trentesimo compleanno di Stella; tra pranzi grotteschi, emorragie di denaro, abusi di droghe e di farmaci, crudeltà gratuite e annoiate, i preparativi per la festa si trascinano in un susseguirsi di eventi tragici con cui non si riesce a empatizzare.

Si definiscono «gli Iperborei», in un’autocelebrazione al limite di un delirio di onnipotenza monco d’ambizione e d’obiettivo, che restituisce solo in parte le caratteristiche del popolo mitico caro al dio Apollo e che abbraccia invece la ripresa che ne fa Nietzsche in L’ Anticristo: loro sono «tutto ciò che non sa fare». Poco meno che trentenni, figli di genitori ricchi e ricchissimi, legati l’un l’altro come se dovessero rispondere a una dinamica settaria più che di classe sociale o di semplice affetto, i protagonisti del romanzo sono definibili solo per privazione. Anzitutto, sono privi di passione, desiderio; poi, a differenza dei loro genitori, sono privi di talento: Stella, che vorrebbe fare l’attrice, è imbarazzante; Ciccio, che vuole occuparsi di politica, è emblema di ipocrisia e mancanza d’integrità, Guenda scandisce i tempi dell’ozio con l’assunzione ininterrotta di droghe e sostanze, nonostante manifesti un vago interesse per la storia e la lettura. Edoardo e Aldo sono dediti al culto narcisistico e perversamente masochistico del sé; lo stesso Poldo, che ha scritto un libro, non sembra avere un gran talento: in più punti il suo successo sembra da attribuire al suo essere «il figlio di Stefano Biancheri» anziché alle sue capacità.

Il presente è l’unico ambito nel quale esprimono una progettualità, che non va oltre un ideale di lusso anacronistico per quanto schiavo di ogni forma di status symbol; non è contemplato un futuro, ma c’è un’insistenza sul passato che crea un cortocircuito regressivo, una paradossale ricerca del nirvana che punta dritto alla morte ripassando per l’infanzia e che respinge l’idea stessa della vecchiaia e, ancor prima, della crescita.

La trama, aggrappata ad accadimenti lineari per quanto ripiegati in una contorsione in molti punti fine a sé stessa, è disturbata dall’ indugiare sull’infanzia, con l’accanimento sia su stralci del libro di Poldo, sia sui continui flashback che irrompono nella narrazione come i fosfeni di cui soffre il narratore. Sembra esserci, implicita, una ricerca spasmodica del trauma, della ferita, che però non esiste: c’è invece l’esasperazione di uno psicologismo che chiede di essere deduttivo ma la deduzione è macchinosa, ermetica, a tratti impossibile. Non c’è trauma infantile, se non quello che viene attribuito all’aver avuto tutto e all’avere tutto. Le colpe dei padri non sono sufficienti a innescare la ribellione, oppure sono troppo grandi e inducono all’autoannientamento, in una mancanza di coraggio che diventa emblema di una generazione. Quello a cui si assiste è la tragedia di un Edipo che rifiuta di uccidere il padre e che, al suo posto, soffoca in un totem la provocante maestra elementare, capo di quell’orda primordiale di animaletti interpretati dai protagonisti alla recita scolastica con cui loro si identificano ancora, come marchiati. Le madri, incredibilmente assenti se non per passaggi rarefatti, decidono il «colore delle lenti» dei «grandi occhiali con cui guardiamo il mondo», e solo a loro viene concessa la debolezza dell’amore.

Forse è questo l’aspetto a cui il gruppo (l’orda) deve il suo essere debosciato, privo di ideali e di valori e al contempo ossessionato da una forma vigliacca di rivalsa senza pace: sono cresciuti tutti in assenza un nemico, con nulla per cui combattere, in una svalutazione della vita tale da lasciar morire uno sconosciuto perché, nel cercare un telefono, la distrazione di un parco giochi deserto rende irresistibile il non intervenire, «ridente, con le spalle piccole di un dio che non lascia vivere».

Sembra di intravedere, qui, un tetro legame con episodi di cronaca nera che hanno avuto Roma come sfondo: il delitto Varani, per esempio; oppure il massacro del Circeo, i cui protagonisti hanno non poche analogie, che si potrebbero definire antropologiche, con i personaggi di Castellitto.

Come per queste storie, spesso le ragioni dell’agire personale non sono chiare, e sembra non esserci la necessità di dare spiegazioni o giustificazioni: non c’è, insomma, la ricerca di redenzione né alcun desiderio assolutorio, ed è qui, forse programmaticamente, che la narrazione vede infrangersi le ambizioni di sperimentalismo e di originalità.

La scrittura di Castellitto riesce a riflettere in maniera accurata tutti questi aspetti: la sintassi è sincopata, i ritmi incostanti; l’andamento ricorda le modificazioni fisiologiche che si accompagnano agli stati d’alterazione della coscienza: affanno, aritmia, tachicardia, letargia. Sono rare le pause descrittive, i dettagli sono riservati per lo più a elenchi che ricordano molti passaggi di Bret Easton Ellis in American Psycho; l’intensità emotiva è schiacciata, ricacciata indietro, relegata a all’implicito, poi rielaborata e raffreddata in strutture che tendono all’aforisma e che lasciano trapelare un’ossessione aneddotica. Si sente, in molti passaggi, la tentazione cinematografica, da sceneggiatura, che influisce sull’equilibrio dei pesi soprattutto tra il detto e il non detto, a favore del primo. Castellitto porta lo sforzo di comprensione al limite, riuscendo bene a rendere, anche in questo senso, l’esclusività feroce della porzione di realtà che ha scelto di raccontare.

 

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3 commenti

  1. Lo stile narrativo non è il mio preferito. Troppe interruzioni non giovano. Nè giova usare la parola c…o fino…. alla noia o al disgusto. Troppo, troppo, troppo.
    La trama mi è comunque piaciuta.

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