Pubblichiamo la versione estesa di un articolo apparso originariamente sul Messaggero. Immagine: Ajna e Sabina, dalla mostra “Breaking Free” nata dagli attivisti dell’associazione Forgotten Children of War (Zaboravljena djeca rata)/Sakher Almonem.

È tarda sera a Srebrenica, quando, dopo un viaggio faticoso, Ajna Jusić scarta con cura gli involucri che proteggono delle fotografie preziose per l’allestimento di un’esposizione. Gli scatti mostrano i volti dei “figli dimenticati della guerra”. Questo è il nome dell’organizzazione fondata da Ajna e da altri ventenni bosniaci le cui madri sono state vittime di stupro nella barbarie dei conflitti bellici jugoslavi.

Nella primavera del 1992, all’alba della guerra disgregatrice della Bosnia ed Erzegovina, cristallizzata poi dall’accordo di pace di Dayton del 1995, la madre di Ajna, Sabina Jusić Bašić, era una studentessa brillante, originaria della cittadina di Zavidovići, situata nel cuore del Paese alla confluenza di tre fiumi. Sabina aveva ventidue anni quando piombò nell’inferno di un campo di concentramento. Come decine di migliaia di donne jugoslave, ha vissuto sul proprio corpo la violenza sessuale perpetrata da vertici militari, soldati e paramilitari. Per loro lo stupro divenne uno strumento di guerra e di conquista.

«L’accettazione della gravidanza è stata dura» ricorda Sabina: «Era doloroso sentire crescere dentro di me qualcosa che, in ogni istante, mi ricordava la violenza patita. Non vedevo l’ora che uscisse dal mio corpo per liberarmi. Appena venuta al mondo Ajna non ha pianto, sembrava fissarmi negli occhi e chiedermi di vivere. Ho superato momenti di crisi profonda: l’amavo ma provavo la pulsione di allontanarla». In ospedale, durante la prima fase dell’allattamento, Sabina, traumatizzata e lacerata, ha cominciato a maturare la propria scelta: ricostruire con la figlia la vita che i criminali le avevano stravolto. Hanno imparato a proteggersi e ad affrontare insieme il dolore. «Ajna è la ragione che mi ha tenuto in vita» dice a bassa voce. «A volte ho pensato di essere stata egoista, trattenendola con me. Forse sarebbe stato più semplice crescere lontano dalla Bosnia, ma so che nessuno avrebbe potuto amarla come ho fatto io. Sono orgogliosa di non essere stata sopraffatta dall’odio. E soprattutto sono fiera della donna che lei è diventata, capace di lottare contro la discriminazione, di cui siamo paradossalmente vittime, per la propria libertà e per quella di coloro che condividono il suo stesso destino. Direi, più in generale, che lei e i suoi coetanei sono la coscienza critica di un Paese che ancora non riesce a fare i conti col passato».

Madre e figlia hanno vissuto per sette anni in una casa famiglia protetta. Sabina lavorava in una caffetteria, poi ha deciso con coraggio di tornare nel villaggio natio, dove non era accettata in quanto madre single. Lo stupro inferto dai soldati nemici era un segreto da nascondere. Una volta trapelata la notizia, Sabina ha dovuto combattere contro l’ostilità e la discriminazione. Tuttora nei social network appaiono messaggi carichi d’odio nei confronti delle vittime: «Avete venduto i corpi in cambio del cibo, prostitute».

All’età di quindici anni, Ajna ha cominciato a rispondere alle domande che l’hanno sempre tormentata: chi è e dov’è tuo padre? Un giorno, rovistando fra i documenti della madre, ha trovato le carte della polizia che denunciavano la dinamica di gruppo dello stupro. Dal momento della scoperta, Ajna si è interrogata sulla propria identità. Ha vissuto un periodo di silenzio assoluto, protrattosi per nove mesi, poi ha attraversato una fase di fughe dalla scuola, dalla propria città, Zenica, diretta a Sarajevo, ma soprattutto dal peso della verità. Ajna ha deciso di non cercare il padre. Un anno fa ha raccontato per la prima volta in pubblico la vicenda.

«Darei ogni mio respiro, colore che vedo e sogno che appare nella mia mente per asciugare per sempre le lacrime sul volto di mia madre» dice Ajna, che ha studiato psicologia. «Non posso smettere di ringraziarla per la forza dimostrata. Mi ha fatto sentire in grado di amare e non ho mai percepito di essere la figlia del male. Bisogna debellare lo stigma che ha marchiato mia madre, le altre donne e i figli: la violenza sessuale non è colpa loro, come non lo è il fatto di essere sopravvissute. È passato il momento di nasconderci, tuttavia non esiste ancora alcuna tutela legislativa per noi».

In questo senso potrebbe cambiare qualcosa dopo la recente pronuncia storica del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Per la prima volta l’Onu ha stabilito un risarcimento economico, che dovrà essere pagato dalla Bosnia a una donna violentata da un soldato dell’esercito serbo bosniaco nel 1993. Il criminale, già condannato in tribunale per il reato, non ha mai corrisposto la pena pecuniaria perché nullatenente. Il Comitato ha chiesto alle autorità bosniache di legiferare per la creazione di un sistema di compensazione e di sostegno psicologico gratuito per le donne.

Ajna e Sabina si muovono anche a livello internazionale. Recentemente hanno incontrato per campagne d’informazione e progetti comuni Denis Mukwege, medico e attivista congolese, Nobel per la pace 2018, esperto nella cura delle vittime di questo crimine. I primi documenti, che attestano la nascita di figli in seguito alla violenza sessuale nei conflitti bellici, risalgono alla Guerra dei trent’anni tra il 1618 e il 1648. Dalla Seconda Guerra Mondiale la questione è tornata drammaticamente in auge: in Germania i neonati venivano chiamati “Wehrmachtskinder”, in Bosnia “Chetnik babies” e in Ruanda “Children of hate”.

La mostra fotografica “Breaking Free”, inaugurata nella primavera del 2019 a Sarajevo, restituisce nomi, cognomi e la ricchezza interiore di chi non si è rassegnato al ruolo di vittima. L’esposizione racconta il percorso di Ajna e degli altri membri dell’associazione ed è il primo passo di una storia ancora tutta da scrivere. A macchiarsi del crimine fu anche personale internazionale, giunto nel paese durante il conflitto. Si stima che siano quattromila i figli di donne violentate tra il 1992 e il 1995, dati spesso in adozione, e che la gran parte di essi sia inconsapevole della propria vera identità. La ricerca della verità di Ajna squarcia il velo dell’oblio, che spesso cala nei dopoguerra.

Ajna e Sabina ritengono fondamentale l’assistenza psicologica, che le ha sostenute. Irfanka Pašagić, neuropsichiatra originaria di Srebrenica, fuggita nel 1992 a Tuzla, è stata una pioniera nel sostegno delle donne colpite dalla violenza. Prima di lei nessuno in Bosnia si era occupato di disturbo post traumatico da stress. In piena guerra creò a Tuzla il centro d’accoglienza Tuzlanska Amica.

«Durante la guerra le donne hanno dimostrato la propria forza e hanno assunto un ruolo prima negato nella società. In precedenza, specialmente nei villaggi, erano abituate a essere viste sempre soltanto come casalinghe con il marito padrone della casa» spiega Irfanka. «Percorrevano quotidianamente decine di chilometri per assicurare un pezzo di pane ai loro figli, nonostante i bombardamenti e i proiettili dei cecchini. Hanno fatto miracoli anche nel dopoguerra. Ora viviamo una fase di riflusso patriarcale. Sono poche le donne protagoniste in politica e si cristallizzano nuovamente le disuguaglianze di genere. Il percorso di Ajna e Sabina rappresenta l’emancipazione e indica l’unica strada possibile: verità, giustizia e dialogo per un progresso reale della Bosnia».

Lo stupro è stato a lungo considerato come un evento collaterale, nel novero delle cose possibili, se non scontate, nella violenza dei conflitti con le donne ridotte alla stregua di un bottino di guerra.

In realtà, l’effetto e gli obiettivi dello stupro di guerra sono a più lungo termine, a cominciare dalla marginalizzazione ed espulsione della vittima dalla vita sociale. Nel dopoguerra lo stupro è stato una memoria da rimuovere e con essa l’esistenza ferita della donna. Negli eventi bellici la violenza sessuale è una strategia precisa. In Bosnia è stata un mezzo per la pulizia etnica soprattutto dei musulmani nei territori conquistati dalle forze militari serbo bosniache.

Tuttavia tali violenze hanno riguardato ogni attore del conflitto. Lo stupro mirava a infondere il terrore nella popolazione attaccata. Le decine di migliaia di donne violentate hanno subìto e lottato contro l’invisibilità. Per molto tempo non hanno raccontato per il timore delle conseguenze sociali della denuncia. Lo stupro era considerato uno stigma da trattare in privato. Il silenzio ha complicato anche la misura della vastità di questa arma di guerra che infligge danni fisici e morali permanenti.

La stima del numero delle donne violentate nei campi di concentramento, nelle proprie case davanti ai famigliari e nei luoghi pubblici oscilla tra venticinquemila e cinquantamila.

Le donne non rientravano nelle categorie dei reduci e per lunghi anni non è stata aperta una discussione collettiva, cercando di relegare i fatti a una questione privata e alla responsabilità individuale dei criminali. Il contesto di una società patriarcale, segnata da profonde disuguaglianze

di genere, ha aggravato la condizione d’isolamento delle donne colpite. La guerra ha fatto esplodere i tratti di misoginia, la violenza e il controllo sul corpo delle donne che già caratterizzavano la società.

Dagli stupri di gruppo alle mutilazioni genitali fino all’asportazione dei feti in donne in stato di gravidanza si è materializzato il campionario del disprezzo. Il crimine a sfondo sessuale aveva lo scopo di incrinare la stessa vita famigliare e l’onorabilità delle vittime, che invece avevano bisogno solo di sentire accolto il proprio dolore. Ammettere la violenza sessuale equivaleva alla perdita della linea di discendenza di sangue fatta coincidere con quella del campo di battaglia e più in generale con la nazione.

Il corpo delle donne è divenuto uno strumento della retorica e della politica nazionalista: da esse dipendevano la riproduzione culturale, biologica e la “purezza” degli Stati-nazione sorti dal dissolvimento della Jugoslavia. La sfera riproduttiva rientrava ormai nel controllo politico. Le donne dovevano essere pronte a procreare e donare i propri figli alla nazione e alla guerra.

Nella crisi e nei riflessi balcanici del vuoto provocato dal crollo del Muro di Berlino, le donne hanno incarnato l’imposizione dei nazionalismi, quali simbolo dei confini della presunta madre patria. Quanto è avvenuto in Bosnia ha squarciato questo velo. Per la prima volta a livello internazionale è stata riconosciuta la reale entità del fenomeno quale parte della strategia di un genocidio e si è iniziato a perseguire nelle aule di giustizia tali crimini e i loro autori.

Ajna non è sola: nella Bosnia ed Erzegovina esiste una generazione solida di ventenni. Non sono emigrati, malgrado la difficile situazione economica, e cercano di cambiare una terra prigioniera di una classe politica che prospera sulla divisione etnonazionalistica di memorie e dolori distanti che raramente riescono.

 

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gabrielesantoro@minimaetmoralia.it

Gabriele Santoro è giornalista professionista dal 2010. Ha lavorato per Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Tv2000. Dal 2009 collabora con Il Messaggero. Scrive per il venerdì di Repubblica, Minima&moralia, Il Tascabile – Treccani e l’Osservatorio Balcani – Caucaso. È autore del saggio inchiesta «La scoperta di Cosa nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia» (Chiarelettere, 2020), della guida narrativa «111 luoghi di Roma che devi proprio scoprire» (Emons, 2022) e di «Tutti i colori del rosso» (Feltrinelli, 2024)

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