Per te, Gianni, la vita era un gioco di memoria. Sembrava un esercizio, un allenamento. Le chiamavi “mnemoniche”, sceglievi una lettera e sfidavi gli amici anche per telefono. Con me vincevi facile, ma tu non giocavi per vincere, anche se eri un campione. Giocavi solo per il piacere. Così come per piacere scrivevi, per una specie di scandalosa irriverenza, la stessa che balla negli occhi dei poeti e dei bambini, la tua ribellione all’oblio che saremo e alla serietà astemia e incurabile del mondo.
Sì, c’è voluto del talento per invecchiare senza diventare adulti, come cantava il tuo Brél, e quel talento tu ce l’avevi. Mi sono sempre chiesto da dove ti veniva quello stile, che bastava un attacco o una virgola, a riconoscerlo; a lungo ho pensato che fossero le muse della pancia a ispirarti, quelle che ti fanno restare tra le cose, che ti chiedono di saper descrivere con poche esatte parole il sapore di un risotto o di un formaggio, o la fatica di un atleta, la realtà tutta, per come accade. Ma seppure ti era toccato di ereditare la Olivetti Lettera 32 di Brera, tu non sei stato un Gadda o un Manganelli; nessun risentimento interiore ti muoveva, nessuna tensione al virtuosismo e al vanto. Appartenevi a un’altra categoria di funamboli, più olimpica e bonaria, più generosa.
Forse erano stati i francesi, a modellarti: le matite di Simenon, le sue pipe, nessun ammicco, mai, oppure la lezione di Hemingway e John Fante, la letteratura dei fatti, l’epica dei perdenti, la loro cantilena. Perché tutto in te, anche l’allegria, alla musica sempre ritornava, e aveva il suono di un acordéon. Le metafore fulminee e scintillanti, le similitudini impreviste.
Avevi una bella voce, impastata di gentilezza, e ti ho sentito intonare melodie partigiane nel corridoio di una radio o citare a memoria i versi del lamento a Ignazio Sanchez, in una notte senza luna; ho visto poi come tenevi le carte in mano, e con quanta cura parlavi con le persone. Detestavi i palloni gonfiati; ti interessava di più la gente taciturna, quelli che avevano la faccia di Gigi Riva o di Sergio Endrigo. E amavi i secondi, gli sventurati che avevano incontrato nella loro vita un Anquetil o un Merckx, e tutti quelli che avevano fatto i conti con la miseria e con la solitudine, con la malasorte e la sconfitta, ma senza cadere mai nel vittimismo. Ti piaceva chi non si risparmiava, chi aveva saputo rovesciare le avversità in un vantaggio, chi era come se tornasse dagli ultimi confini.
No, non erano le muse della pancia a ispirarti, erano quelle del cuore. E il cuore ricorda, il cuore si ammala, il cuore traccia di continuo una mappa degli affetti e non la smette di cantare perdute canzoni d’amore e di giocolare. Sempre con il cuore hai scritto, quello dava la nota, trovava il ritmo, e il tuo cuore faceva più rumore di una macchina da scrivere. Mi hai insegnato più cose tu, con un articolo, che cento università. Che il bene non è mai noioso, ad esempio, e non bisogna stancarsi di raccontare. E che si può stare in disparte, anche quando si è al centro dell’attenzione. E che per i ricordi, non bisogna mai avere le tasche bucate. Per questo tenevi la tua memoria allenata, per non dimenticare.
Ma tu non hai mai preteso di insegnare niente a nessuno. Tu stavi dal lato mancino dell’esistenza, non dietro alle cattedre. Dalla parte dell’errore, dell’imperfezione, della fantasia. Eri libero, e giocavi a zona, anche se quel ruolo non esiste più, e ne hanno cancellato il numero pure dalle maglie. Non hai mai avuto vincoli con nessuna forma di potere, per questo gli unici libri con una dedica che ho sono i tuoi. Ci sono tre generi di calciatori, ha scritto Soriano, ma era come dire tre generi di scrittori e di artisti. Quelli che fanno cadere la palla in uno spazio vuoto, ma uno spazio che qualunque fesso può vedere dalla tribuna. Poi ci sono quelli che invece ti prendono di sorpresa, e trovano libero uno spazio di cui non ti eri accorto. E infine ci sono quelli che creano uno spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Uno spazio nuovo. Quelli sono i poeti del gioco, e tu eri uno di questi.
Anche questa volta, come ha detto un amico, non hai scelto la morte alla moda e te ne sei andato per tuo conto, coerente a te stesso come hai sempre vissuto, subito dopo l’equinozio di primavera e nella data mondiale che celebra la poesia. Ma ci hai preso di contropiede. Per una sciocca timidezza o discrezione non sono mai riuscito a dirti quanto ti volevo bene, e ne ho un rimpianto enorme. Ma non scorderò il tuo passaggio nei miei giorni, e tutto quello che ti devo.
L’ultima volta ti ho incontrato alla Stazione Termini, una mattina di questo inverno. Fumavi davanti ai binari, in mezzo alla folla. Ti sei illuminato, e subito ci siamo messi a parlare di libri, di calcio, di canzoni. Poi ti ho accompagnato alla banchina per Milano. Ti ricordo così, che ti avvii verso un treno in partenza, con il cuore ormai sulle labbra.
Ti sia lieve la terra, Gianni, e il viaggio.
Fabio Stassi (Roma 1962) di origini siciliane, vive a Viterbo e lavora a Roma in una biblioteca universitaria. Scrive sui treni.
Nel 2006 ha pubblicato il romanzo Fumisteria (GBM, premio Vittorini Opera Prima 2007). Per minimum fax: È finito il nostro carnevale (2007), La rivincita di Capablanca (2008), Holden, Lolita, Živago e gli altri (2010) e Il libro dei personaggi letterari (2015). Per Sellerio ha pubblicato L’ultimo ballo di Charlot, tradotto in diciannove lingue (2012, Premio Selezione Campiello 2013, Premio Sciascia Racalmare, Premio Caffè Corretto Città di Cave, Premio Alassio), Come un respiro interrotto (2014), un contributo nell’antologia Articolo1. Racconti sul lavoro (2009), Fumisteria (2015, già Premio Vittorini per il miglior esordio) e La lettrice scomparsa (2016). Ha inoltre curato l’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (2013).

Che bel ricordo. Prezioso e tangibile. Grazie a Fabio Stassi per averlo condiviso. Ciao Gianni.
Caro Fabio, non so se qualcuno può superarti nella capacità che hai di scegliere ogni singola parola. Nessuno ha scritto parole così belle e vere e profonde sul tuo caro amico Gianni. In qualche modo saranno arrivate a lui, perché sentimenti cosi limpidi non possono avere confini.
stupendo