
Pubblichiamo un articolo di Daniele Manusia su Alex Schwazer.
Positivo a un controllo anti-doping pochi giorni prima della sua partenza per le Olimpiadi di Londra, Alex Schwazer non ha dato spiegazioni convincenti sulle modalità con le quali è finito in quel pasticcio. Si può davvero comprare l’EPO in una farmacia turca, portarla in Italia e tenerla in frigo? Si è dopato sul serio grazie a dei tutorial di Youtube o qualcuno lo ha aiutato?
Nonostante questi dubbi legittimi, la conferenza stampa strappalacrime con cui ha reso pubblica la propria colpevolezza, ha persuaso il pubblico delle difficoltà e della pressione che lo hanno spinto a commettere quell’errore fatale per la sua carriera. Anche Carolina Kostner, sua fidanzata, si è detta arrabbiata per l’errore sportivo e colpita al tempo stesso dal coraggio con cui Alex ha affrontato le telecamere per raccontare il “suo dramma”.
Ho guardato e riguardato più volte quella conferenza e ritengo che la sua bellezza consista esattamente nella distanza tra la verità e le menzogne di Schwazer. O meglio, tra la verità – ammesso che esista una cosa di questo tipo in qualche angolo recondito della realtà che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni – e l’impossibilità per Schwazer, considerate le circostanze, di dire la verità. Tra la compassione per una confessione sincera e la repulsione per delle lacrime di coccodrillo. A metà strada tra Open di Agassi e le interviste di Michele Misseri, la versione dei fatti di Schwazer segna il suo punto di rottura, il limite a cui si può spingere con gli strumenti del linguaggio. Chiedergli di più sarebbe pretendere che si aprisse la gabbia toracica e parlasse davvero col cuore in mano.
La storia raccontata da Schwazer col suo italiano di Bolzano, la polo blu, i capelli voluminosi e spettinati lavati quella stessa mattina, è quella di un ragazzo di ventitre anni capace di vincere l’oro olimpico – con record – nella 50 chilometri di marcia a Pechino, a cui è stata conferita l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, e che è andato in crisi subito dopo. L’anno successivo l’Olimpiade si ritira per problemi di stomaco dai Mondiali di Berlino. Agli Europei di Barcellona, nel 2010, arriva secondo nella 20 chilometri ma si ritira nuovamente, per una contrattura, nella distanza più lunga. Dopo quella gara avrebbe dichiarato alla Gazzetta: “Non mi diverto più. Se arrivo secondo è già una delusione”. (…) “Ho la sensazione che il mio corpo faccia di tutto per non fare fatica”. Risalgono a quel periodo i suoi contatti con il dott. Ferrari, medico preparatore di ciclisti (tra gli altri, di Lance Armstrong), a cui Schwazer dice di aver chiesto solo delle tabelle di allenamento. Poi litiga col suo allenatore, Sandro Damilano, e si allontana dal centro di riferimento per la marcia italiana, a Saluzzo, per allenarsi da solo a casa sua. C’è chi dice che sia cambiato in peggio dopo l’Olimpiade e che gli pesi essere identificato come il fidanzato della Kostner. Nel frattempo arriva nono ai mondiali di Daegu del 2011. Siamo così arrivati alla vigilia delle Olimpiadi della scorsa estate, in vista delle quali Schwazer si carica di aspettative eccessive, del desiderio di “tornare molto più forte di prima”.
Dopo 26 minuti di giornalismo d’inchiesta (il viaggio in Turchia, la medicina nel frigo, la fidanzata Carolina e l’incontro così sospetto col dottor Ferrari nel parcheggio di Verona Nord – giornalismo d’inchiesta e problemi logistici: “Ma se io andavo a casa, dovevo andare da lui a Ferrara per poi tornare su?”), Schwazer sembra illuminarsi. Un cronista più creativo degli altri lo paragona a un marito che lascia in giro tracce dell’adulterio perché la moglie se ne accorga. “Chiedi a mia madre quante volte a casa ho detto: basta, non ce la faccio più”, risponde Alex. “E lei ti diceva no, vai avanti?” – “Tutti. Non puoi smettere. Hai il potenziale per essere il più forte. Come fai in uno sport come il mio che vinci le Olimpiadi a 23 anni a dire il giorno dopo basta? Ma io ero stufo, io non ce la facevo più”.
Quando poi gli chiedono che differenza c’è tra lui e la sua ragazza, anch’essa sportiva di alto livello, anch’essa costretta a lunghi ed estenuanti allenamenti lontana dagli affetti, Schwazer racconta: “Io ho parlato tante volte con lei. E… la grande differenza, penso, è che lei ama il suo sport. Lei pattina perché le piace. Io il mio sport lo faccio perché sono bravo. Perché alla gara X, se tutto va bene, vado forte. Ma io non ho piacere ad allenarmi 35 ore la settimana, facendo sempre la stessa cosa. Perché io ho fatto delle giornate dove arrivavo alla sera distrutto e solo pensare al mattino dopo che dovevo di nuovo faticare, e solo faticare per 3 ore, mi veniva la nausea, sinceramente”.
In quanto spettatori, per noi è naturale guardare gli atleti della marcia, deformati da quell’andatura innaturale, che non è né camminare né correre, chiedendoci: chi glielo fa fare? Sembra impossibile, però, che qualcuno possa eseguire quello stesso sforzo ponendosi questa stessa domanda. (Non devo perdere contatto col terreno, non devo piegare il ginocchio della gamba a terra, ho fame, sete, mi fa male tutto, avanti così, aumenta il ritmo, mancano solo 40 chilometri – ma chi me lo fa fare?). Come Agassi, Schwazer dichiara di non aver mai amato il suo sport. Ma siamo in Italia, e se Agassi è vittima di un padre-allenatore che lo costringe, bambino, sotto il sole del deserto, Schwazer a quasi trent’anni non è in grado di prendere una decisione senza chiedere il permesso alla madre. Mamma, posso smettere di fare il Campione Olimpico?
Nonostante tutto questo non sia una novità per lui – “Io anche da giovane ho sempre faticato, perché io ho fatto marcia a 16 anni. Prima di andare a scuola, da solo, facendo marcia, dove tanti mi prendevano pure per il culo” – Schwazer non si è mai sentito libero di smettere. “Non lo fai, dici che vai avanti, fino a un’età dove per tutti è comprensibile che tu smetti”.
Lo stesso concetto lo esprime più tardi (al minuto 40 circa), quando dopo aver descritto la differenza tra la 20 e la 50 chilometri di marcia Alex cambia tono con un salto emozionante: “…purtroppo… Purtroppo nella vita uno può fare solo quello che sa fare, perché se vuole fare quello che non sa fare, sbaglia come nel mio caso. E io in questo caso non sono più stato lucido, e volevo tutto e… bon, adesso ho perso tutto”. Schwazer, in effetti, sta esprimendo il rammarico di non aver deciso di correre soltanto la 50 chilometri, mescolandolo col rimpianto per aver provato a imbrogliare, lui che non ne è capace. So che non potrei prendere una frase intera e tagliarla a metà per darle il senso che più mi piace, ma quando ho sentito questo punto della conferenza per la prima volta sono saltato sulla sedia prima che la finisse: Purtroppo uno nella vita può fare solo quello che sa fare.
In alcuni momenti, se non si stesse scusando per aver deluso le speranze di tutti, sembrerebbe quasi che Schwazer abbia intenzione di criticare le contraddizioni di una società che sbandiera valori come fatica e sacrificio solo come preambolo al successo: “Voi non avete idea di quanti sacrifici io ho fatto per questa gara. Però poi cosa succede? Va male la gara e sei un grande coglione. Scusatemi la parola. E io non ho più voglia di essere giudicato per la singola prestazione. Così come non mi è mai piaciuto essere osannato quando vinci. Perché questa non è la realtà. E lo sanno solo chi fa sport ad alto livello, chi sa faticare ogni giorno sa questo che io sto dicendo adesso”.
Che in Schwazer ci sia il desiderio di sfogarsi delle colpe altrui oltre che di confessare le proprie è evidente quando dice cose come: “Io avevo voglia di nuovo di avere una preparazione che ha senso. Perché tante volte in Italia succede che tutto va un po’ a caso e se l’atleta sta bene e fa la gara bene, è il merito sempre di tutti. E però quando va male, eh, l’atleta è debole di testa”. Oppure: “Sai quante volte io ho letto: Ah, Alex Schwazer è scoppiato. Ritirato. Cambio allenatore. Non c’ha più la testa. Fa troppe feste. Troppi sponsor. Troppe pubblicità. Una pubblicità ho fatto, solo che lo sponsor è grande e la fa vedere tante volte. Cosa leggo? Troppe pubblicità. Tre giorni in vita mia ho fatto. A casa mia son venuti”. Ma quella era la conferenza stampa in cui Schwazer doveva confessare a un paese intero di aver preso l’EPO, di essersi dopato, e per una cosa come il doping non ci sono scuse che tengano. Schwazer d’altra parte non cerca giustificazioni, vuole prendersi tutta la colpa. Ci tiene, anzi.
La questione delicata del doping necessiterebbe di un dibattito serio ma all’interno del discorso di Schwazer il ricorso all’EPO è giustificato esclusivamente dalla fatica e dai dolori continui. Non solo si trova davanti a un pubblico che dà per scontato che l’uso di sostanze dopanti sia da condannare, ma una parte di Schwazer la pensa allo stesso modo. Quella parte vittima dei sensi di colpa che lo ha spinto a lasciarsi sottoporre al controllo pur sapendo che sarebbe risultato positivo, anziché farsi negare dalla madre e saltarlo senza rischiare nulla, come da regolamento – Mamma, posso fare sega al controllo anti-doping?. Quella parte che teme di poter essere giudicato anche in futuro come un “drogato”.
Da alcune frasi, però, si capisce che Schwazer non ha le idee così chiare: “Perché il doping, non è solo il doping che ti fa forte. Ma tu in prima linea devi allenarti bene, devi sapere cosa devi mangiare la sera per fare poi l’allenamento. Questo purtroppo adesso è lo sport. Non si fa più, non si va più alle Olimpiadi e il giorno prima ci si ubriaca con l’amico che poi il giorno dopo lo trovi in gara”.
Schwazer si perde nel labirinto dei suoi ragionamenti: “Io spero di essere un esempio per loro – per i giovani – nel senso di non fare questa cosa. Perché la vita è tutt’altro, ecco. Io a casa ho 4 medaglie: una olimpica, due Mondiali e un’Europeo. Però nella vita conta tutt’altro: conta la famiglia che oggi è qua, gli amici che oggi sono qua. E mettere tutto in gioco solo per andare forte ad una gara, non ha senso”. Partito per mettere in discussione il doping, Schwazer finisce per dubitare del valore stesso della competizione sportiva. Sono le medaglie appese al muro che paragona in termini negativi alla famiglia e agli amici, non il doping o le conseguenze del doping. Anzi, dato che quelle medaglie le ha vinte da pulito, a pane e acqua, sono l’allenamento, la fatica e i sacrifici simbolizzati da quelle medaglie a non avere senso.
“Noi viviamo in un paese, io dico sempre, abbastanza… bello, poi qua in provincia si sta bene. Non è che siamo morti di fame. Che o vinci l’Olimpiade e ti metti a posto tutta la vita, o sennò devi… crepare quasi. In confronto di tante altre Nazioni. (…) In altre Nazioni non è così. La gente ha meno scelta, è per quello che ha più voglia. Deve. Deve andar forte. E questo, i ragazzi qua, lo devono capire”. Se prova a mettere ordine, colpa anche di una lingua non del tutto sua, Schwazer si confonde: “Non è un vant.. svant… io ho sempre pensato che per me è uno svantaggio, no? Che sto già bene. Ma devi pensarlo in un’altra maniera: è un vantaggio, che tu stai già bene. E se lo vedi così ti togli tanta, tanta pressione. È questo che io non sono riuscito a fare”.
Agli occhi dei giornalisti Alex è, o sembra, “una bellissima persona”, uno che usa l’intercalare “ecco” e chiude le sue frasi con un “no?” retorico – che crede, cioè, che la sua visione delle cose debba essere largamente condivisa, e lo è – uno che dice cose come: “Per me non è un problema essere uno normale, anzi io sogno questo”. Ma a qualcuno i conti non tornano. “Se volevi tornare a una vita normale, quello che non capisco, bastava ritirarsi”, gli dice una giornalista. “Secondo te era così facile?” – “Non ha senso farsi beccare per tornare a fare una vita normale” – “Sì. Se uno pensa normalmente sì”. Schwazer veniva da un periodo fallimentare e sapeva bene a cosa sarebbe andato incontro se avesse solo continuato a fallire. Se fosse arrivato decimo, come gli suggerisce un giornalista. “Sì, adesso detto così, con tranquillità. Poi cosa sarebbe successo? Se io non avessi vinto la medaglia, chi la vince? Spero per gli altri, ma cosa sarebbe successo? Di nuovo, ho fallito tutto. Io penso che questo è la verità”.
La verità di Schwazer è paradossale: sono quello stesso ambiente provinciale e privilegiato, quella presunta normalità a cui ha tanta fretta di tornare che avrebbero dovuto, in teoria, liberarlo dalle pressioni e che gli hanno impedito, di fatto, semplicemente di smettere.
Cosa sarebbe successo se fosse arrivato decimo? Avrebbe dovuto ricominciare ad allenarsi per la prossima gara, per trovarsi dopo poco, di nuovo, di fronte allo stesso conflitto. Non è stata la paura di fallire che ha spinto Schwazer al doping, quanto piuttosto la paura di fallire troppo poco. Si commuove, quando racconta che la sua fidanzata è dispiaciuta per lui – “Perché non me lo merito” – ma, sarà l’affetto che ci impedisce di vedere quello che serve davvero a chi amiamo, è vero forse il contrario. Schwazer ha fallito in modo talmente clamoroso da non avere più la possibilità di tornare indietro, ha voluto fare del suo fallimento qualcosa di grande, con molto dolore, certo, ma anche con passione. “Posso solo dire ancora una cosa? Per me è una cosa importante. Che io non devo coprire nessuno. Perché io non voglio nessuna diminuzione della mia pena. Io non voglio ritornare più, io voglio una vita normale”.
PREQUEL: Il Fu Campione Olimpico
Se nessuno ha parlato mai di “dramma” prima che si dopasse, Schwazer ha mostrato da sempre una spiccata tendenza alla drammatizzazione. Dopo aver fatto il gesto di Braccio di Ferro durante la gara, Alex vince la 50 chilometri di marcia a Pechino piangendo durante tutto l’ultimo giro. Nell’intervista successiva non riesce a parlare. “Sono emozionatissimo”, dice, scoppiando di nuovo a piangere. Adesso possiamo notare come le lacrime di gioia di Schwazer siano incredibilmente simili a quelle di vergogna che vedremo in seguito, ma l’intervistatrice dai capelli rossi, all’oscuro dei futuri avvenimenti, riempie il vuoto televisivo con quanto di più lontano possa esserci dal vuoto abissale su cui sembra affacciarsi Schwazer nella vittoria e nella sconfitta: “Ma lo sappiamo perché. Perché tu sapevi di essere il più grande”. Alex scuote la testa. “È che…”, prova a dire, ma lei lo interrompe: “È che ci hai messo tanto in questa medaglia”. Alex scuote la testa con maggiore energia. “È che non è stato facile per me quest’anno. A luglio è morto mio nonno… è stato molto importante per me”. Poi torna in sé. In quel sé artificiale che corrisponde all’immagine dello sportivo imbattibile: “In queste condizioni non mi batte neanche Superman”. Sì, vabbè.
Dopo il ritiro dei Mondiali del 2009 si presenta nella postazione dei commentatori Rai. “Come stai?”, gli chiedono. “Forse non mi sono mai vergognato in vita mia come in questo momento”. Di fronte al solito problema del vuoto il commentatore dice: “Ci sono dei silenzi, a volte, che dicono molto di più”. Alex però continua: “Un conto è se fai un anno di festa e ti ritiri…”. Il commentatore è in difficoltà al punto che non riesce a farlo girare a favore di telecamera: “Ma è meglio che fate vedere la gara” – “No. Tu sei il Campione Olimpico”. Gli sforzi del commentatore per fargli dire qualcosa che rientri nei parametri del buonsenso sono commoventi. “È un obbligo. So che in questo momento vorresti essere su un’isola deserta, lontano, ma… cosa viene fuori… rabbia… stai facendo un piccolo esame di coscienza per chiedere forse ho sbagliato lì, forse ho sbagliato lì… no? Cioè, sono questi ultimi giorni che ti hanno presentato il conto alla fine?“ – “Forse negli ultimi mesi dovevo vivere un po’ di più. Eh eh”, risponde Alex con una risata sarcastica.
Daniele Manusia è direttore e cofondatore dell’Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto Cantona. Come è diventato leggenda (add, 2013).
bella disamina
Se tutti scrivessero così penso che riprenderei a leggere il giornale, oltre che prenderlo alle 3 del mattino e sfogliarlo romanticamente su una panchina senza leggere un accidente.
Penso che prima o poi su questo tizio qualcuno ci farà un romanzo.
Complimenti per l’articolo ;^)
Bell`articolo. Da buon massimalista, pero`, la vicenda di Schwazer la liquido facile. Hai fatto una cazzata? Paghi. Punto e niente lacrime. E il reato lo estingui con la squalifica. Altro punto.
E non mi dire che a sedici anni non sapevi queste cose, il doping e tutto il resto. Quando vi vedo in televisione, marciatori, ciclisti, maratoneti, mi spavento. 50 km? Ma chi e` quel sadico che si e` inventato il triathlon, la maratona da fare in 2 ore, il 260 km su due ruote. Ma metteteci i vostri panzuti dirigenti in quegli scarpini, via con un calcio in culo e bon.
La Kostner ama il suo sport? Ci credo, c`e` precisione, ritmo, movimento, gioia, una gran fatica negli allenamenti, ma anche il piacere di fare una figura limpida e perfetta, come al circo.
Che cosa rimane ai marciatori e ai nuotatori di fondo?
Un cronometro, con le lancette ferme su una frazione infinitesima del tempo di vita perso a ripetere lo stesso gesto.
Da queste parti si dice che lo sport e ` per gringo e cinesi. I primi e i secondi lo fanno per uscire dai ghetti, piu` o meno allo stesso modo. E gli indigeni? Troppo occupati a godersi la vita, a stare con gli amici, e a nuotare in piscina per il gusto di rinfrescarsi.
Caro Enrico, ho il vago sospetto che tu confonda il “massimalismo” con il “qualunquismo”. O in ogni caso che tu sia molto superficiale.
Non vorrei stare qui a rimarcare l’ovvio, ma “massimalmente” (in linea di massima), a livello concreto, visibile, pratico, reale, anche lo scrittore sta seduto su una sedia ripetendo sempre lo stesso gesto.
Ma curiosamente a qualcuno piace scrivere. E qualcun altro lo fa perché ha talento, e non può farne a meno, e ci pensa anche quando è ubriaco, ed esce con gli amici, e va a “godersi la vita”. Anche se non vorrebbe pensarci.
Mi spiace, ancora, stare lì a tirare le somme e sparaflasharti fuori una morale, ma il punto dell’articolo è proprio quello: il non riuscire a smettere (di pensarci). Troverai molti punti in comune con altre “situazioni” della tua gaudentissima vita.
Al, Una delle cose che non sopporto su quasi tutti i blog e` l`impossibilita` di correggere gli errori. Ho scrittoumassimalismo, e per di piu` su un blog culturale! Intendevo dire un`altra cosa, cioe` che se ha sbagliato, paghi, e la cosa finisca li`. Nel sistema borghese il reato si estingue (o si dovrebbe estinguere) con la pena, giusto? Ci sono passati tanti ciclisti, ce la fara` anche Schwazer.
Mica criticavo l` articolo, che e`anzi piuttosto interessante.
Ma il nocciolo della questione e` purtroppo semplice. Ci sono degli sport allucinanti dove la ripetizione e l` efficienza del gesto sono l` unica sostanza. E parlo da ex ciclista amatoriale. Nuotare 50 vasche come un criceto, o sparaflasharti 10 ripetute sui 1000 metri non ha davvero nulla di divertente. E` sofferenza pura, al piu` mitigata da una fisiologia favorevole. Mi sono convinto che chi pratica certi sport si perda un pezzo della propria vita. Il Mortirolo, l` Alpelago, l`Aprica, sono salite bellissime in compagnia di amici con i panini nello zaino, diventano una punizione in gara. Roba da ossessivi. Problemi loro, io li lascio a massacrarsi di allenamenti e vado a fare qualcosa di piu` interessante.
Per finire, non mi sembra che la scrittura si possa ridurre al gesto meccanico dello scrivere. A meno che tu non stia parlando di uno scrittore seriale, che e` uno sportivo della scrittura.
No, sto dicendo che “quello che vedi” in un gesto sportivo, non è la sua reale “sostanza” (mi costringi a fantastiche concettualizzazioni adolescenziali). Quindi, come la scrittura (che consiste in un gesto meccanico) origina qualcosa di imprevedibile sia per lo scrittore in sé che per il lettore che ne fruisce, allo stesso modo è il “meccanico gesto sportivo”.
Sic stantibus rebus, ti sconsiglio di dare giudizi assoluti sulla “consistenza” delle occupazioni altrui.
Ps: io amo particolarmente questi sport “meccanici e ripetitivi”, come la maratona o il ciclismo. Direi che il ciclismo è il mio sport preferito.
Tra l’altro mi sono meccanicamente girato l’italia in bicicletta. E mi sono sentito molto figo.
Al, rimango della mia opinione. Chi pratica sport di durata estrema e` un pazzo autolesionista. Ti consiglio di leggere un manuale di fisiologia per avere un`idea delle conseguenze di questi sport estremi e ripetitivi.
L`Italia in bicicletta l`hai girata per diletto, mi sembra di capire, non per correre appresso a un cronometro. E` proprio li` il punto.
Purtroppo sono un tecnico, e quindi NON CAPISCO le concettualizzazioni, tanto meno quelle adolescenziali.
La figa, come la fatica, sono due invarianti rispetto alla loro descrizione letteraria. Sempre cordialmente.