Questa intervista è uscita per Il Mucchio

di Liborio Conca

Quello che si dice un’intervista On the road: durante uno spostamento in auto, munito di vivavoce, uno dei protagonisti della letteratura italiana di questi anni ci racconta la genesi del suo nuovo e assai denso romanzo XY.
Veronesi appartiene a quella razza rara di autori che riescono a combinare successo di pubblico e ottimi riscontri critici. E anche chi proprio non sopporta Veronesi dovrebbe avere l’onestà di ammettere che il suo Pietro Paladini, il protagonista di
Caos Calmo, romanzo premio Strega e bestseller, rappresenta come poche altre creature letterarie contemporanee il difficile passaggio nell’epoca che stiamo vivendo. Per Fandango è in questi giorni in libreria XY, un romanzo che ha tra gli altri meriti quello di fornire diversi spunti a chi deve intervistare, e non capita sempre.

Anche se lei ha detto, a proposito di XY, che si tratta di un romanzo non troppo diverso dai suoi precedenti, sembra tuttavia evidente che con questa storia lei abbia per così dire “alzato il tiro”. La potenza del Male, la necessità dell’uomo di avere risposte, sono temi universali e difficili da affrontare. Come si è ritrovato a scrivere questo romanzo?
Non posso arrivare alla radice di questa decisione; al perché una storia del genere abbia catturato la mia immaginazione; l’immaginazione di uno scrittore che ha riversato in questo lavoro oltre quattro anni della propria vita. Questo non lo so. So però che i quattro anni e mezzo che ho impiegato per scrivere questo libro si sono accordati, purtroppo, con questo senso – alto, solenne quanto vogliamo – di morte, che ha rappresentato la scintilla sulla quale la mia immaginazione di romanziere si è messa in moto. Mi è già capitato: qualcosa che io continuo a definire come sensibilità letteraria in realtà mi avverte che sta arrivando un certo periodo della vita da dover affrontare. E il mio modo di rispondere a questa sorta di presagi è scriverci un romanzo. In questi quattro anni e mezzo ho dovuto contemplare la morte come mai prima. In maniera anche normale, se vogliamo: sono morti i miei genitori. Ma nella sua banalità è un’esperienza sconvolgente. Alla fine ho scritto di un tipo di emozione che mi avviavo a vivere: anche stavolta è andata così.

È comunque… oserei dire oggettivo che l’ambizione di XY, il suo ricercare una verità, il suo indagare l’anima degli uomini, siano estremamente fuori moda nel romanzo contemporaneo italiano, non trova?
Si, e no. Vede, noi contemporanei abbiamo un brutto vizio. Non leggiamo quasi mai i romanzi le opere dei nostri tempi in chiave simbolica. Nel caso di XY ho accentuato gli elementi irrealistici in modo che il lettore sia costretto a cercare questa chiave simbolica, altrimenti la ragione di alcuni fatti narrati sarebbe risultata inesistente. Altrove però questo non succede. Parlo della mia esperienza: di Caos calmo, che pure è stato un grande successo, quasi nessuno ha fatto una lettura simbolica, cogliendo i significati che avevo disseminato nel testo.

C’è una scelta forte, dal punto di vista narrativo, in XY, ed è quella di fornire una rappresentazione estrema, addirittura grottesca del Male, che si manifesta simultaneamente e in modi differenti in un borgo del Trentino: perché ha voluto condensare tutto in un’unica esplosione di morte e violenza?
In queste morti, avvenute in un unico attimo, ho voluto riunire le nostre paure e i nostri pensieri sanguinari più naturali, quelli che ci possono tormentare ogni giorno. Non è altro che la materializzazione di un pensiero selvaggio, di un pensiero del Male che attraversa tutti noi. Il punto per me è che era importante creare delle immagini che potessero restare vivide nella testa del lettore, anche quando questi avrà dimenticato la trama, i personaggi, o gran parte delle pagine, della bellezza che ha incontrato – ammesso ovviamente che ce ne sia, ciascuno qui giudicherà. Io intanto volevo creare un’immagine plastica e definitiva, da non poter deformare più. Restando a XY mi riferisco, ad esempio, all’albero che contiene tracce genetiche di tutti i morti di Borgo San Giuda. Un tipo di immagini forti, come l’impronta di Venerdì che Robinson scopre sulla spiaggia quando lui crede ormai d’essere solo sull’isola. Quell’impronta resta, anche se dimentichiamo – come io ho dimenticato – ogni singola pagina che compone Robinson Crusoe. Ancora, lo sguardo di Emma Bovary sotto l’ombrellino parasole. Sono tutte immagini letterarie, costruite con le parole, che rimangono per sempre. Nel mio caso, dovendo affrontare il male, ho dovuto sbarazzarmi della bardatura, della sovrastruttura razionale, dei miei pregiudizi, per creare qualcosa che restasse. Mi viene in mente L’esorcista: la potenza di quel film sarebbe uguale senza le scene che più ci hanno terrorizzato, penso alla ragazza che ruota la testa a trecentossesanta gradi eccetera?

Naturalmente lei era consapevole che alcuni critici avrebbero avuto da ridire di fronte a uno snodo narrativo così roboante, a un’esplosione che salta agli occhi immediatamente. Il supplemento culturale del Manifesto, Alias, ha definito XY un romanzo “improbabile”, partendo proprio dall’assurdità di quelle morti simultanee…
Sa, non ho ancora avuto la rassegna stampa e dunque non ho letto l’intera recensione, per cui non posso esprimere considerazioni precise su questo articolo. Però, come ha detto lei, l’ho messo in conto. Fino ad oggi non era successo, adesso scopro che è successo… Be’ è chiaro che è un romanzo improbabile; certo che è un romanzo improbabile. Evidentemente chi la pensa così crede che qualcosa non funzioni nel meccanismo del romanzo, perché anche La Metamorfosi di Kafka è a tutta evidenza un romanzo improbabile… dev’esserci qualche aspetto linguistico o più in generale narrativo che non ha convinto.

A questo proposito, qual è più in generale il suo rapporto con la critica?
Il rapporto è molto semplice: lascio fare, lascio che la critica faccia il suo lavoro. Se qualche critico serio – ed è il caso di Alias – dice che il mio libro non è piaciuto non sto certo a indispettirmi, cerco di caverne quando è possibile del nuovo. Altrimenti accetto, perché fa parte del gioco. In realtà, devo dire che nel corso della mia carriera di scrittore sono stato molto “coccolato” dalla critica, ho avuto le mie stroncature ma non posso certo lamentarmi di come i critici hanno accolto i miei libri, sin dagli esordi. Una ragione in più, forse, per accettare i giudizi negativi. Certo, poi ci sono i cialtroni, quelli che sparano per sparare, ma si sa chi sono. A me è capitato, in realtà, di vedere nelle critiche negative un elemento per così dire di calmierazione dell’entusiasmo quando le cose andavano bene, senza che questo mi abbia rovinato la vita, anzi.

Perché ha voluto che ad affrontare la sconvolgente rivelazione del Male che si materializza in XY ci siano un sacerdote, don Ermete, che tra l’altro ricorre anche in un altro suo romanzo, e una psicologa?
In realtà io non sono partito dai due personaggi, bensì dal “campo comune” che si crea alla fine, che credo sia l’unico sul quale si possa giocare questa partita. Un campo così aperto, eppure non battuto da “professionisti”, perché non esiste un’occupazione, un lavoro, un modo di vedere le cose definito che corrisponda allo stato in cui si trovano i due personaggi alla fine del romanzo. E allora ho preso due “carichi da novanta”: ho preso i due tradizionali portatori di luce della storia; la fede e la scienza. Eppure lo scienziato non è così scienziato, tant’è che tende alla psicanalisi, una scienza più borderline, e il prete è un prete che ha attraversato il mondo, che è entrato in contatto con la Teologia della Liberazione, insomma un uomo scomodo anche per la sua Chiesa. Due figure estreme all’interno di questi due grandi nuclei di sapienza a cui ci affidiamo.

A proposito di questi nuclei, degli opposti, di scienza e ragione… Una curiosità: è stato lei a scegliere il bellissimo racconto di Arrigo Boito inserito come contenuto extra?
Ma certo, l’ho scelto io. C’è una cosa meravigliosa in quel racconto, che io sento vicina e anche ulteriormente risolutrice del senso che io cercavo di cogliere nel mio romanzo. Nel racconto c’è un punto magistralmente individuato e circoscritto: l’ossessione che diventa liberatoria, e la paranoia che si fa sapienza. Che è un po’ quello che ho cercato di mostrare: se decidi di andare oltre il muro aristotelico della tua formazione, qualcosa oltre c’è; anche oltre la ragione, perché no, anche se è difficile da spiegare con le nostre parole, col nostro linguaggio.

È per questo che don Ermete e Giovanna riescono solo a sfiorare la verità, a ipotizzarla?
Come si intitolava l’altro romanzo di cui è protagonista il sacerdote? (il romanzo si intitola, appunto, Gli sfiorati, ndr.) Ecco, lui ha nel destino. Anche se è cambiato, è diventato prete, ha viaggiato, questo destino dello “sfioramento” ce l’ha. D’altra parte, io non riesco a concepire altro di più illuminato dell’essere sfiorati. Non c’è momento di peggior desolazione nella Galilea di quando Cristo ascende al Cielo, è quasi meglio che restasse morto…

Quali sono, se ci sono state, le difficoltà più grandi che lei ha incontrato nella scrittura di XY?
Ero consapevole sin dall’inizio, considerando che ormai ho una discreta esperienza come narratore, che sarei potuto andare avanti per un pezzo, bene quanto vogliamo, ma che la partita fondamentale si sarebbe giocata nel campo di cui parlavamo prima, collocato verso la fine. In altre parole, potevo sbagliare la preparazione della scena e avrei fallito prima ancora di giocare la partita: arrivato a quel punto, però, sapevo che lì il romanzo si giocava tutto… Be’, c’è un dialogo di cinquanta pagine, quasi un atto unico, e io non avevo mai scritto dialoghi così lunghi, che rappresentino anche temporalmente una fase così lunga. Un momento che deve sostenere tutto il romanzo. Questa è stata la difficoltà più grande. Ancora adesso non ho la certezza di aver fatto al meglio; ancora adesso mi capita di fare delle osservazioni che avrebbero potuto irrobustire ulteriormente quella parte. Non si finisce mai di imbattersi in qualcosa che sarebbe stato utile in quel passaggio. Era quella l’architrave, quello il momento che avrebbe dovuto togliere dalla testa del lettore l’etichetta di romanzo “improbabile”.

Che ruolo ha avuto nel lancio di XY, un battage che ha sfruttato nuove tecnologie creando contenuti multimediali, narrazioni in un certo senso parallele a quelle dell’oggetto libro (per farsi un’idea, si può consultare il sito www.x-y.it, ndr)?
Il lancio del libro è stato predisposto su più livelli. Uno più tradizionale, con l’ufficio stampa che ha fatto un ottimo lavoro con grande anticipo, e meno male, visto l’affollamento che c’è in libreria, e nel caso di Fandango questo è fondamentale perché non può irrompere all’improvviso sul mercato senza aver “prenotato” attenzione… insomma non ci si poteva permettere di fare come nel caso di Einaudi con Ammaniti, un libro “non previsto”che però arriva in due giorni dappertutto.. e poi sì, c’è stato quest’altro strumento più innovativo, ideato da ragazzi molto validi, che hanno tentato un approccio diverso – che comunque considero marketing, certo da non scambiare con la letteratura. Io ho approvato l’idea e il progetto e l’ho alimentato con tutto il materiale preparatorio di XY che poteva essere utilizzato in questo modo. Secondo me era una via da tentare, non so quanto riproducibile e ripetibile, ma s’è trattato di una sperimentazione poco costosa e molto ingegnosa. Poi certo non si stavano “lanciando” un paio di scarpe, ma letteratura, dunque bisognerebbe evitare di spremere il libro, però mi sembra una strada interessante, anche per le case editrici più piccole.

Infine; ho rivisto il filmato della sua partecipazione alla trasmissione Che tempo che fa. La sua intervista si conclude con una sorta di esortazione, rivolta ai “potenti“, di saper ascoltare gli scrittori, gli artisti. Be’, poco dopo l’Amministratore Delegato della Fiat Marchionne se ne è uscito con una delle bordate più grosse e non certo illuminate che si ricordino… cosa ha pensato?
Sa, devo dire che la mia non voleva essere proprio un’esortazione, più che altro era la triste constatazione che anche se ricoperto di ghirlande uno scrittore non conta niente, basta pensare a Pasolini. Immagino cosa potrebbe dire Pasolini adesso, commentando la situazione in cui l’Italia è precipitata da lui largamente prevista. Io lo so che i potenti non ascoltano gli artisti. So anche che prendono due o tre lauree come Marchionne, magari ti rispondono “ma io li leggo i libri, li ascolto gli scrittori”, salvo poi dimostrare il contrario. Perché come diceva Sartre la letteratura è il luogo dove chi perde vince, e invece mi sembra che qua vincano sempre i soliti.

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Autore

gavroche1983@yahoo.it

Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell'agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.

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