Pubblichiamo la seconda puntata di una serie dedicata alla poesia di Emily Dickinson, curata da Giuseppe Zucco. Qui potrete leggere la prima puntata.
Per fare un prato ci vuole del trifoglio
e un’ape, del trifoglio e un’ape
e i sogni a occhi aperti.
E se saranno poche le api
basteranno i sogni.
(da Silenzi, di Emily Dickinson, a cura di Barbara Lanati, Feltrinelli)
Più o meno negli stessi anni in cui visse Emily Dickinson, visse anche Henry David Thoreau. Abitavano lo stesso stato americano, il Massachusetts, e le loro città, Amhrest e Concord, distavano l’una dall’altra un centinaio di chilometri. La socialità non fu il loro forte – non si sposarono, non ebbero discendenza. Dopo essere stati assidui lettori della Bibbia, dei Vangeli, di Omero, di Shakespeare, di Milton, di Emerson, entrambi scrissero opere destinate a tracimare impetuosamente oltre la diga del breve tempo in cui respirarono.
Prima dei trent’anni, per problemi loro, forse non così entusiasti del genere umano, i due fecero perdere le loro tracce, come sparendo dietro una curva. Emily Dickinson si confinò senza più uscire da casa neanche per il funerale del padre, Thoreau lasciò la sua città e andò a vivere per oltre due anni in una capanna tra i boschi sulle rive di un lago.
Scrive Thoreau in Walden, ovvero la vita nei boschi, il libro in cui avrebbe fornito ampio resoconto di quei due anni solitari e selvatici, «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa […].»
Sono parole che Emily Dickinson avrebbe sottoscritto volentieri, anche se prima vi avrebbe apportato una modifica necessaria. Poiché se Thoreau andava nei boschi per vivere con saggezza, Emily Dickinson, per le medesime ragioni, frequentava il suo giardino, che si estendeva per due acri dietro la grande casa paterna, ed era provvisto di una serra in cui riporre e curare le piante in inverno.
Delle 1797 poesie che Emily Dickinson scrisse su quadernini e buste da lettera, e che sua sorella Lavinia ritrovò nei suoi cassetti al momento della morte, moltissime di queste traggono motivi e ispirazione proprio dal suo giardino. La cosa non deve stupire più di tanto. Esperta e appassionata di botanica, allora materia di insegnamento nelle scuole, Emily Dickinson era soprannominata Margherita, possedeva un erbario dall’età di quattordici anni, conosceva perfettamente l’anatomia e la classificazione delle piante, nella serra faceva esperimenti con i fiori tropicali, corredava le sue lettere con fiori essiccati, e se aveva qualcosa da dire ai pochi che le facevano visita senza venire respinti usava il linguaggio dei fiori.
Thomas W. Higginson, il futuro curatore delle sue poesie, racconta così di Emily Dickinson alla moglie in una lettera del 1870, «Mi venne incontro con due gigli, come fanno i bambini, me li mise in mano e disse: “Questo è il mio biglietto da visita”, con una vocina tutta spaventata, infantile, ansimante […]». Quando morì, moltissimi di coloro che la scortarono al cimitero la piangevano non per le sue poesie, di cui non sapevano assolutamente nulla, ma per la sua abilità nel coltivare e comporre i posies, i mazzolini di età vittoriana.
Molto probabilmente, se non ci fosse stato quel giardino, non ci sarebbe stata neanche Emily Dickinson per come la conosciamo. Il giardino è uno degli incontri fondamentali della sua vita. «Sono cresciuta in giardino», scrive in una lettera del 1859. Sollecitandola continuamente, colmandola di forme sempre nuove, rendendola partecipe di un segreto che soffia nell’aria da sempre e che già Ovidio aveva recepito così bene – la natura non è altro che immaginazione in atto – il giardino le dischiude la mente, le affina i sensi, le permette di vibrare come una fogliolina al vento e di affondare nella terra più scura come una radice. A contatto con il giardino, Emily Dickinson diventa ancora di più una creatura tra le creature. Celebre è il verso «Ancora non l’ho detto al mio giardino». Ma sebbene parlino moltissimo tra di loro, non è un dialogo quello che avviene tra Emily Dickinson e il suo giardino, è più che altro un corpo a corpo. Ecco cosa racconta a proposito in un’altra poesia, «Al mio vigile orecchio le foglie discorrevano / e c’era in ogni cespuglio una campana, / e non riuscivo ad appartarmi / da quelle sentinelle di natura. / Se in una grotta tentavo di nascondermi, le mura si mettevano a gridare: / il creato sembrava tutto un immenso spacco / per lasciarmi scoperta.»
Nelle immagini raccolte sul campo da Emily Dickinson, la natura parla sempre, rintocca a festa o a morto continuamente, ci precede e ci raggiunge ovunque tentiamo di nasconderci. Sono addirittura terrorizzanti questi versi, e nulla hanno a che vedere con il sentimento di conforto che solitamente associamo alla frequentazione di un giardino o alla contemplazione delle piante in fiore. Sarà anche che la natura è così bella, ma «il bello non è che il tremendo al suo inizio», come acutamente annota Rilke ne Le Elegie duinesi, e Emily Dickinson è perfettamente consapevole che ciò che ci fa più godere, è anche ciò che ci farà tremare, svelando la parte più scabra e incandescente di noi stessi. Davanti all’immenso spacco del creato, la natura non copre Emily Dickinson, la mette a nudo, rivelandole gli aspetti meno governabili e contraddittori di se stessa, dei suoi simili, del mondo circostante.
In un altra poesia scrive «La natura si dimostra pacata / certe volte maestosa / ma appena smetti di osservarla / estende le sue pratiche / alla negromanzia e ai traffici lontani dalla comprensione». La cosa è strana. Questi versi in cui la natura è così desta e senziente, così pacata e maestosa, avrebbe dovuto scriverli Thoreau nella cattedrale di qualche fitto bosco con le guglie degli alberi elevati al cielo, in un intrico di vegetazione senza nome, lì dove la frontiera americana si estendeva ancora vergine e inesplorata, e invece li scrive Emily Dickinson davanti alle tenere minute piante del suo giardino. Verrebbe da chiedersi perché, ma la risposta è così chiara leggendo di seguito i suoi versi. Emily Dickinson ha un approccio alla natura da fisico quantistico, e riesce a scorgere l’infinitamente grande nell’infinitamente piccolo, al punto che una ghianda «è l’uovo della foresta», un pino è «un mare su uno stelo», per non parlare del lillà, «Una corolla è l’Ovest – / il calice è la terra – / i semi rilucenti della capsula / le stelle […]».
La coltivazione premurosa e l’osservazione attenta del giardino donano a Emily Dickinson nuove diottrie, e se in questo modo trova l’immenso nel minuscolo, il pieno nel vuoto, il continuo nel discreto, la vita nella morte – visto che una gelata può sempre bruciare il giardino che immancabilmente tornerà a sbocciare in primavera – c’è qualcosa di ancora più profondo che balena davanti ai suoi occhi tra le piante in fiore. Scrive Anna Maria Ortese, «Un albero abbaglia per sempre la mente isolata e perenne di Emily Dickinson; un usignolo parla per sempre alla mente isolata e perenne di John Keats, così come la tigre si rivela per sempre alla mente isolata e perenne di Borges. […] Questi poeti (ma poi, tutti gli altri autentici poeti) ci raccontano senza sosta l’unità del mondo, e ci raccontano il mondo come emozione e ragione di un Ignoto a cui tutti apparteniamo […].»
Ecco una delle più grandiose e inquietanti scoperte che Emily Dickinson compie mentre si avventura tra gli schioccanti fremiti degli alberi, dei cespugli, dei fiori, dell’erba, delle molteplici popolazioni di insetti e animali che brulicano all’ombra o al sole nel giardino – l’unità del mondo. Tutto soffia in tutto. Tutto dimora in tutto. Tutto è connesso con tutto.
Tra le mille occupazioni che la cura di un giardino esige, forse una più di tutte rivela questa profonda unità. Fare un prato. «Per fare un prato», scrive Emily Dickinson, «ci vuole del trifoglio e un’ape». Già queste parole così limpide e semplici in realtà nascondono un segreto. Non ci sarebbe il prato se non ci fosse una relazione. Non ci sarebbe il prato se non ci fosse una relazione tra due specie appartenenti a due regni apparentemente distinti. Non ci sarebbe il prato se due esseri non si fondessero aprendosi agli esiti imprevedibili della mutazione e del rinnovamento. Il prato, il mondo, la vita, così, appaiono sempre come il risultato di un incontro, di un’attrazione erotica, di una relazione. Se per un attimo lasciassimo perdere il prato, e ci spingessimo giù giù, nel cuore oscuro della materia, dove ogni cosa si compie in modo infinitesimale, vedremmo tutto un pullulare di particelle, e troveremmo che anche gli sciami fluttuanti di particelle cooperano all’unità del mondo più o meno come l’ape e il trifoglio. Non è un caso se la fisica delle particelle venga definita come una fisica relazionale.
Ma Emily Dickinson, che già intuiva tutto questo, si spinge oltre. «Per fare un prato ci vuole del trifoglio / e un’ape, del trifoglio e un’ape / e i sogni a occhi aperti.» Anche questi versi sono così limpidi e semplici, ma qui tutto si fa più complesso e vertiginoso. Per fare un prato, dice Emily Dickinson, non basta una relazione tra gli elementi, serve anche che qualcuno sogni a occhi aperti. Ricordate quanto scriveva Danilo Dolci, «Ciascuno cresce solo se sognato»? Ecco, Emily Dickinson immagina qualcosa del genere – per far sì che il prato s’infiammi di verde e metta radici, c’è anche bisogno che qualcuno lo desideri ardentemente, che qualcuno prefiguri dentro di sé il prato che verrà, come se il mondo che si genera tra le nostre mani fosse in larga parte costituito dai nostri sogni e desideri.
Emily Dickinson, nel testo originale della poesia, per indicare questa immaginazione trasognata, usa la parola revery. Nelle traduzioni in mio possesso, Barbara Lanati la traduce con «sogni a occhi aperti», Margherita Guidacci con «sogno», Massimo Bacigalupo con «fantasia», Giuseppe Ierolli con «immaginazione», Silvia Bre con «una mente che sogna». Chi avrà ragione? Ovviamente, tutti. La parola tradotta si apre a molteplici sfumature di senso. Ma è indubitabile che la parola revery implichi un’attività mentale, cioè una mente che sogna, pensa, immagina profondamente. Per comprendere ancora meglio questa poesia bisognerebbe capire di chi sia questa mente. Il testo della poesia rimane vago. Che fare?
Una soluzione sarebbe quella di pensare il trifoglio, e quindi le piante, e quindi il giardino, e quindi la natura intera, come una mente estesa che percepisce, plasma, immagina e sogna intensamente i futuri sviluppi di se stessa e del mondo. Scrive Emanuele Coccia ne La vita delle piante, «Se è alle piante che si dovrebbe chiedere che cos’è il mondo, è perché sono loro a «fare mondo». Per la stragrande maggioranza degli organismi il mondo è il prodotto della vita vegetale, il risultato della colonizzazione del pianeta da parte delle piante da tempo immemorabile». E ancora, «Là dove c’è una forma, c’è una mente che struttura la materia, ovvero la materia esiste e vive in quanto è mente.» Così, nel suo giardino, con i suoi piccoli versi, Emily Dickinson riscontra proprio la natura senziente e reticolare delle piante, anticipando di un secolo e più i risultati della neurobiologia vegetale.
Un’altra soluzione sarebbe quella di attribuire la mente che sogna proprio a Emily Dickinson. Del resto, è lei stessa a suggerirlo altrove. In una famosa poesia, Emily Dickinson si raffigura con il suo cane nel giardino. D’un tratto qualcosa accade. Un uccellino scala il cielo e corteggia la rosa più matura. È una scucitura improvvisa nell’ordine del creato, ed Emily Dickinson proprio non riesce a capire se quel prodigio è avvenuto davvero davanti ai suoi occhi o se è frutto del «giardino della [sua] mente». Ci troviamo nel regno degli eventi appena dischiusi e già perduti, che trovano contemporaneamente consistenza fuori e dentro il campo percettivo di chi osserva. Qui Emily Dickinson sembra suggerirci che certi eventi sono possibili solo se c’è qualcuno disposto ad accoglierli e farli crescere dentro di sé in tutta la loro potenza. Così che anche la nostra mente è un territorio vastissimo e selvatico che in molte parti può essere coltivato come un giardino e portato a estrema fioritura, al punto che Emily Dickinson, in un’altra poesia, riferendosi a una strana sensazione, non esita ad ammettere che «Questo è un germoglio del cervello».
Qual è la soluzione migliore? Se Emily Dickinson scrivendo questa poesia è rimasta così vaga, probabilmente tutt’e due. Se esiste una mente del giardino, allo stesso modo esiste un giardino della mente – e l’una è dentro l’altro, e l’una è intrecciata all’altro. Tanto che Emily Dickinson sembra avanzare l’idea che il mondo sia il risultato di un’intensissima e frenetica attività mentale, immaginando tutti gli esseri viventi come una mente diffusa e polimorfa, dove tutti comunicano con tutti per via telepatica, scambiandosi continuamente sogni e visioni.
Ma ormai lo abbiamo capito. Per fare un prato, qualsiasi cosa significhi, ci vuole del trifoglio, un’ape e i sogni a occhi aperti. Ma cosa succede se mancano le condizioni materiali perché il prato trovi luogo? Cosa succede se il ronzio incessante delle api per una ragione qualsiasi viene meno intorno al trifoglio? Emily Dickinson qui è categorica. «E se saranno poche le api / basteranno i sogni.»
Ecco che viene a noi una delle lezioni più grandi e più difficili di Emily Dickinson, in una forma che assomiglia a un testamento, visto che questa poesia non è datata, e nelle raccolte compare sempre come una delle ultime che ha scritto. Verrà un tempo per il più abissale sconforto, e per la malattia, la cecità, la paralisi, l’irrigidimento finale, sembra dire Emily Dickinson, ma fino allora, e tanto più allora, disperatamente, tenacemente, gioiosamente, bisognerà opporre noi stessi alle mancanze e alle avversità del mondo. Anche nelle condizioni di più estrema aridità, la vita è sempre impollinata dai nostri sogni, la realtà è sempre impollinata dalla nostra immaginazione. In un modo o nell’altro, se avremo la forza e la costanza di persistere nei nostri desideri, perfino nel momento in cui tutto ciò non servirà più a nulla, l’incendio verdissimo di un prato appiccherà. «La vita – è quel che ne facciamo», scrive apertamente Emily Dickinson in una poesia, ma è soprattutto ciò che immaginiamo. E lì, in una terra che c’è e non c’è, che sta già affondando delicate radici un prato di cui ancora non abbiamo cognizione.
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[Bibliografia: Silenzi, di Emily Dickinson, a cura di Barbara Lanati, Feltrinelli. Walden, ovvero la vita nei boschi, di Henry David Thoreau, a cura di Piero Sanavio, Bur Rizzoli. Lettere, 1845-1886, di Emily Dickinson, a cura di Barbara Lanati, Einaudi. Herbarium, edizione facsimile, di Emily Dickinson, Elliot. Questa parola fidata, di Emily Dickinson, a cura di Silvia Bre, Einaudi. Tutte le poesie, di Emily Dickinson, traduzioni di Silvio Raffo, Margherita Guidacci, Massimo Bacigalupo, Nadia Campana, I Meridiani Mondadori. Le Elegie duinesi, di Rainer Maria Rilke, traduzione di Enrico e Igea de Portu, Einaudi. Corpo Celeste, di Anna Maria Ortese, Adelphi. Poesie, di Emily Dickinson, a cura di Massimo Bacigalupo, Oscar Mondadori. La vita delle piante, Metafisica della mescolanza, di Emanuele Coccia, il Mulino. Tutte le opere, di Emily Dickinson, a cura di Giuseppe Ierolli (www.emilydickinson.it)]
[Fonte immagine: Trifolium pratense – Wikimedia Commons]

Ottimo saggio, pieno di suggestioni e di richiami, di scrittori e libri amati.
Secondo movimento, altissima qualità come nel primo, potente lettura, non obliabile, grazie! Maria Pertile
Quest’analisi, così veritiera e approfondita, ha messo in evidenza degli aspetti essenziali dell’opera di Emily. La sua fervida mente, i suoi sogni, il candore infinito che la poetessa ci ha regalato ne sarebbero felici. Il suo microcosmo in realtà ha le dimensioni di un universo intero. Perché nel suo recludersi è insito un amore per tutto ciò che la realtà sottrae agli occhi distratti. Perché senza il silenzio….non esiste poesia.
Mi piace pensare ad una Emily Dickinson che sdraiata tra l’erba scopra un’ape affaccendata vicino a lei… vicino a lei cosí quieta…
Cosí come mi piace pensare che la frase
“…. la vita è sempre impollinata dai nostri sogni, la realtà è sempre impollinata dalla nostra immaginazione… ” sia un dono che Giuseppe Zucco faccia ai suoi lettori…. GRAZIE!!!!
Scrittura straordinariamente comunicativa e vibrante Grazie
Buongiorno, il link alla prima puntata non è più disponibile. Come si può fare per leggerla?
Grazie
Michele Cirillo