
di Teresa Capello
Più o meno un anno fa, un periodo che tutti ricordiamo – la fine di febbraio 2020 – ho avuto modo di visitare la mostra “Training Humans”, frutto della collaborazione fra la studiosa di intelligenza artificiale Kate Crawford e l’artista e ricercatore scientifico Trevor Paglen.
Ricostruiamo insieme la scena in cui vi sto conducendo. Nella Galleria Vittorio Emanuele, dove si trova l’Osservatorio Fondazione Prada di Milano, e così in Piazza Duomo, c’erano molte persone, molti turisti, da ogni parte del mondo. Ci muovevamo come un’onda umana, sospinta dal flusso impercettibile di quella corrente di corpi, schiacciati l’uno contro l’altro. Per raggiungere l’entrata, bisognava abbandonarsi a quel movimento, con lentezza attraversarlo per arrivare – sospinti da un’onda umana – al portone d’accesso dell’elegante palazzo liberty dove l’OFPM ha sede.
Dopo pochi giorni, iniziato il lockdown, quel file mnestico balena alla mia mente. Come una specie di qrcode, il ricordo andava a confondersi con le immagini successive della stessa piazza, completamente deserta. Il Duomo silenziosamente inutile, gli spazi sociali che diventavano assenza, mentre, da qualche parte nel mondo, si stava studiando scientificamente il caso, e virologi, infermieri eroi, medici eroi, e dall’altra parte il silenzio, che molti si ostinavano a definire assordante, del confinamento e le conseguenze drammatiche che la pandemia avrebbe avuto, in tutto il globo. Così, uno dopo l’altro, ripenso a tutti i fotogrammi di tante altre città, forse Wuhan, forse New York o Nuova Dehli, sospese nel nulla pandemico. Fotografie che conserveremo in una zona speciale del nostro archivio mentale, un fatto storico che certamente lascerà una traccia, in questo millennio.
“Training Humans” esplorava due tematiche chiave: “la rappresentazione, l’interpretazione e la codificazione degli esseri umani attraverso dataset di training e le modalità con cui i sistemi tecnologici raccolgono, etichettano e utilizzano questi materiali”. I due artisti-scienziati – Kate Crawford attualmente lavora per Microsoft, Trevor Paglen ha recentemente realizzato un’altra mostra (di cui potete avere notizie qui) – mostravano il risultato di più di due anni di ricerca, a proposito di come avviene la classificazione di esseri umani per mezzo dell’intelligenza artificiale, ma soprattutto di quali rischi possano derivarne. Visitando la mostra, in una scenografia minimale, tra i vari allestimenti, si poteva osservare un’ampia parete con tappezzeria umana: si trattava delle foto di moltissimi visi di sconosciuti, studiati per addestrare sistemi di riconoscimento da parte di computer. Ricerche condotte a partire dagli anni Sessanta del Novecento fino ad oggi, ed accelerate, senza dubbio, dalla pandemia. Nello specchio di uno schermo, si poteva vedere tradotta l’espressione del proprio viso in una codifica: “felice”, “triste”, “allegro”. In un totem scorreva una videointervista (realizzata Jacopo Farina con editing di Federico Circosta).
K.Crawford:
“Abbiamo iniziato a studiare la storia di come i sistemi di IA hanno imparato a osservare il mondo per indagare cosa succede se apriamo la scatola nera dei sistemi informatici e osserviamo come gli esseri umani vengono classificati e condizionati. Questi sistemi decidono per noi, ci classificano e ogni passo relazione e passo che facciamo viene monitorato e interpretato in qualche modo. Che risvolti ha questo nella vita quotidiana e nella società civile?”
T.Paglen:
“Come artista sono molto interessato a questo nuovo ‘genere’ di immagini create appositamente per i computer, ne ho osservato il loro moltiplicarsi. Questa è la cosa più strana, storicamente le immagini sono sempre state realizzate per le persone, e hanno bisogno di loro per essere osservate e interpretate, non esistono se nessuno le guarda”.
Ancora Crawford:
“In un certo senso siamo stati educati da questi sistemi a presentarci e comportarci in una data maniera. Queste dinamiche ci interessano molto, la relazione tra come gli uomini addestrano le macchine e quelli in cui le macchine influenzano gli uomini. (…) Le immagini sono state salvate e categorizzate per creare un set di dati da inserire nei sistemi di computer vision per poter provare a riconoscere elementi significativi del carattere di una persona. Questo per me è l’esempio più estremo e critico dell’utilizzo dei sistemi di computer vision”.
Con le espressioni facciali delle persone, sostenevano i due studiosi, si possono dunque valutare “una molteplicità di fattori: la loro salute mentale, la loro affidabilità come possibili nuovi assunti o la loro tendenza a commettere atti criminali”, perciò, sostiene K.Crawford, “un’asimmetria di potere è propria di questi strumenti”. Specie se supportati da teorie come quelle dello psicologo statunitense Paul Ekman, secondo il quale la varietà dei sentimenti umani può essere ridotta a sei stati emotivi universali.
Alla fine del percorso di Training humans, la sensazione di straniamento dalla realtà, l’allestimento in stanze con toni spenti, una musica in sottofondo, un susseguirsi di suoni metallici, si aveva una percezione più che evidente: nel tratto somatico ci portiamo dietro l’identità. In futuro forse potrebbe non essere necessario portarsi dietro una carta di identità, o almeno non solo: ce la porteremo addosso, la vestiremo con le nostre sembianze ed essa conterrà tutti i nostri dati? Sarà la nostra pelle, il nostro difetto nel sorriso, nel mento, la sequenza dei nostri occhi-labbra-naso? La nostra immagine, captata, elaborata, letta, decodificata, sarà equivalente ad un codice a barre integrato con il nostro viso, oltre che potrebbe essere una semplice funzione per dare comandi, come già accade per accendere il proprio telefono guardandolo in stand by? Quali rischi? E che riflessione fare, a distanza di un anno?
Questa. Che dopo poco tempo dalla conclusione della mostra, si è trattato di nascondere i nostri lineamenti, – naso/bocca coperti per motivi sanitari – e quel sistema di decodifica in parte è risultato sballato, non funzionante. Nelle situazioni sociali le telecamere in strada… non avevano nulla da fare.
Paradossalmente, è risultato molto facile, nel mondo occidentale avvolto nella Rete, diventare il nostro avatar, trasformarci in ologrammi, dalle nostre abitazioni. Grazie alle varie piattaforme, ci siamo visti, ci siamo specchiati – con emozioni freddamente virtuali, perché provate ‘in solitaria’ – campo contro campo, attraverso un diaframma di pixel combinati a distanza, che simulasse la nostra presenza. Dentro il riquadro – del social o della piattaforma – è stato altrettanto facile intercettare lo spazio privato, nelle videoconferenze gli scorci di arredi, i frammenti di privacy, la trasparenza bidimensionale di ciò che da sempre apparteneva alla nostra intimità o a una socialità più ristretta. Un esempio fra tutti, Joan Baez che cantava l’amore d’un mondo ferito, dalla sua abitazione.
Una narrazione storica unica, come se tutti quanti avessimo traslocato nella casa televisiva del Grande Fratello, follia orwelliana trasformatosi, improvvisamente, in realtà. Certamente, il tempo permetterà di riuscire a leggere nei fatti il cambiamento, ma si è trattato dell’impennata di una parabola il cui prima e dopo vanno verso nella direzione. Un processo in corso, una “sperimentazione sugli umani e degli umani”, training umans, appunto. Se il lavoro di Crawford e Paglen mostrava con chiarezza che l’individuo in fondo non è che un puntino, uno spazio di presenza, alla cui scritta mentale “I’m here”, a cui corrisponde la frase “You are here” pronunciata da un cieco sguardo metallico, adesso però è ancor più evidente quanto importante sia il “We are here”.
Abbiamo avuto tutti più chiaro il fatto di abitare, con le fondamenta di tutte le nostre case occidentali, dentro un colossale shopping center nel quale giungevano merci prodotte da mani disperate, sofferenti, in condizioni di lavoro pessime. In questo cloud, noi veniamo riconosciuti per la profilazione di gusti, interessi, acquisti, preferenze. Da qui, possiamo muoverci in tante direzioni su autostrade di fibra. Possiamo però anche chiederci se queste non siano piuttosto come vie di un labirinto al centro del quale noi, in qualche momento, confinati, ci siamo sentiti implosi. I proprietari di questa nuvola, di volta in volta, non ci fanno pagare pedaggi, perché un telepass contemporaneamente permette i nostri passaggi. La questione ha della spettacolarità. Possiamo sentire e pensare di essere in tanti, possiamo contattarci, vederci, possiamo essere vicini e lontani insieme, nessuno e tutti allo stesso momento, immobili ed in movimento, ma non possiamo perdere la consapevolezza storica.
I social che ci permettono di far parte di una massa virtuale, però, sempre di più, ci aiutano a comprendere anche di essere, come collettività, nel vortice di un flusso di dati. Le dichiarazioni dei politici, discutibili o meno, sono passate attraverso questa corrente che qualcuno cerca di trattenere, forse in modo inadeguato ed in ritardo. Dobbiamo solo farci caso. Dobbiamo acuire questa consapevolezza, sapere di far parte, con le nostre vite, di questa dimensione parallela, ma che esiste un mondo reale con le sue urgenze al quale dobbiamo reimparare a guardare con occhi nuovi. Se abbiamo la certezza che sia aperta la partita col vecchio HAL – la musica di Mozart per sempre in sottofondo – sappiamo anche che chi sperimenta questo flusso di dati siamo soprattutto noi, con i nostri gesti quotidiani e le nostre scelte, ci sono sempre delle sliding doors che si aprono e sono da attraversare, da qualsiasi sud e da qualsiasi nord, est ed ovest si guardi la Storia.
Che ne sarà delle nostre tracce video, smarrite nel web? Di nuovo la ricerca artistica può aiutarci a rispondere ai nostri dubbi, oppure, meglio, può suscitare delle domande: alle quali non possiamo rispondere, ma è importante provare a comprendere, sia a livello personale, che culturale e collettivo globale. Cristina Gardumi, in una sua mostra del 2018, ha ritoccato fotografie virate seppia con gli angoli smangiati ritrovate sulle bancarelle dei trovarobe, ha cercato di dare a quei volti, ora spenti, una profondità di campo; ha provato a leggere a posteriori quelle identità perse restituendo loro la delicatezza di una forma di ricordo, la leggerezza di un’interpretazione, anche narrativa. Così, ancora una volta, l’ennesima, noi sappiamo che è la memoria che conta, e nella memoria di quanto è accaduto e sta accadendo, leggeremo le tracce della trasformazione globale che questa epidemia sta portando con sé.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
Temo che l’ospedale del Dottor Donald faccia grandi affari.
Chiarimento: il mio commento sopra era riferito ad un commento inadeguato, poi eliminato.