Pubblichiamo, ringraziando autori ed editore, un estratto da “Laziali bastardi” di Guy Chiappaventi ed Emanuele Palucci, uscito il 30 settembre per Milieu.

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Giorgio Chinaglia

Era Achille e il pirata Long John Silver, il più forte dei greci ma non immortale e il brigante dell’Isola del tesoro, forza, sfrontatezza e anarchia, “io so’ io e voi nun sete ’n cazzo” oppure, se si vogliono mettere quarti di nobiltà, la Lazio sono io, un monarca assoluto, un misto di marmo ribelle di Carrara e di acciaio britannico, un po’ di jet set americano, molto spirito laziale, spirito dei tempi. Gli anni Settanta.

Era un dito puntato come una statua contro la curva Sud, un indice che sembra la canna di una 44 Magnum, la pistola, non lo champagne, lui ha sempre preferito il whisky marca Chivas Regal. Era due corna sventolate al San Paolo di Napoli, “cornuto e sbirro” al Sud resta sempre la peggiore delle offese. Era un piede messo fuori dal tunnel degli spogliatoi, come il cappello nei film western che spunta dalla roccia, per vedere se e cosa gli avrebbero tirato addosso e gli tiravano di tutto. Era un braccio per dire “ma vaffanculo” al commissario tecnico della Nazionale italiana ai Mondiali in Germania, prima di finire sotto un albero in un parco di Monaco di Baviera con la bottiglia in mano, vuota ovviamente. Era una schiena ingobbita come il bisonte al galoppo nella prateria dell’Olimpico, la testa leggermente piegata verso la spalla sinistra, l’occhio azzurro che tradiva un fondo di malinconia, la malinconia dell’emigrante e del leader. Era andato in Galles da solo in treno a sei anni per raggiungere i genitori con il nome e l’indirizzo, Richmond street 111, Cardiff, Wales, cuciti sul maglione dalla nonna: “Se ti perdi, fallo leggere al capo-treno o a chi ti trova”.

Quante cose è stato Giorgio Chinaglia, il grido di battaglia come nel coro dei “Boia chi molla” nella rivolta di Reggio Calabria: l’eroe laziale, la Lazio ovviamente esisteva prima di lui ed è esistita dopo, ma lui la cambiò, la rese fiera, tirò fuori l’anatroccolo dalla palude, le insegnò a non avere mai paura (l’unica cosa che Chinaglia temeva era l’ago delle siringhe), a essere pazza e selvaggia e a volare come un’aquila.

Finì pure in una canzone degli Squallor, Il Vangelo secondo Chinaglia, che diceva: “Me siento un verme, quando penso che per andar veder Chinaglia ho lasciato senza neanche uno scudo la mia hermana”.

Chinaglia era uno che si amava o si odiava, i laziali lo amavano visceralmente e lo amano ancora oggi più di qualunque altro giocatore, tutti gli altri invece lo odiavano, dicevano che era un bullo, un dissociato, violento, megalomane, fascista perché andava a sparare al poligono: “Io non ero fascista, insomma con Mussolini e quelle cose lì non c’entravo niente”. Chinaglia si candidò con la Democrazia cristiana ma a dire il vero anche con i riti della Dc, le sagrestie, i toni sfumati, il compromesso storico così come con il grigio andreottiano aveva poco a che fare. E non c’entrava nulla neppure con il nero: azzurro tenebra al massimo, era un anarcoide, non un missino, è vero che gli piaceva stare a sentire Almirante ma di politica alla fine Chinaglia non capiva né sapeva nulla. Era un istintivo, un barbaro. Nel derby del 31 marzo 1974, quello del dito, scatenò il caos: prese a calci la borsa di un fotografo, tirò una pallonata sulla schiena di Morini che era andato a vedere come stava Negrisolo in terra dopo un infortunio, scagliò il pallone contro la curva Sud e poi punto l’indice. Scoppiò la guerriglia, invasione di campo di un tifoso fermato con una mossa di karate da Francesco Rocca e a fine partita lanci di sassi, bottiglie, pezzi di vetro, lavandini e arance, un assedio ai calciatori della Lazio che stanno rientrando negli spogliatoi, decine di feriti, una donna colpita da un candelotto sparato dalla polizia. Tutti i giocatori si fanno proteggere dallo scudo dei celerini, Chinaglia se ne sta fermo, da solo, con aria di sfida e le braccia conserte sulla pista dell’Olimpico: “Chinaglia, giocatore e capo-tifoso montecchino”, scrive sul Messaggero il giornalista Gianni Melidoni. Sulla Stampa attacca Mario Bianchini: “Ci sembra doveroso mettere sul banco degli imputati un personaggio che deve fama e soldi allo svolgimento ordinato della vita di calcio, il quale, con il suo atteggiamento provocatorio, ha contribuito in gran parte a scatenare la reazione della folla. […] Nell’occasione delle due marcature biancazzurre Long John si è rivolto al pubblico con gesti poco civili”.

Chinaglia era un giocatore anni Settanta, scapigliato e con i basettoni, un giovanotto della Roma esuberante, sfacciata e criminale, non c’era ancora la Banda della Magliana, la stecca para, il sequestro del duca Grazioli, ma non importa, molte pistole e pochi palloni (e quelli con cui si giocava nei parchi erano Super Tele o Super Santos e spesso li bucava un cane di passaggio che all’epoca era un pastore tedesco o un cocker, sembrava che non ci fossero altre razze, i primi husky cominciarono a girare dieci anni dopo), spranghe, catene e pizze in faccia. La Lazio aveva il rito di andare a vedere un film il sabato pomeriggio al cinema Gregory, un tifoso una volta aveva riconosciuto Chinaglia e lo aveva insultato: “Gobbo, levate, che nun me fai vede’ er film” e, appena era diventato buio, Giorgione lo aveva preso a cazzotti.

“Chinaglia è stato l’Arcangelo di Roma. Long John lo sfondatore, urlo di giovinezza prima del rompimento di coglioni degli anni di piombo”, lo ha dipinto lo scrittore Aurelio Picca, tifoso laziale, uno dei tanti ammalati di Nostalgia Chinaglia, “diventato figlio dell’Olimpico affinché lo strazio della vitalità potesse ricadere su tutti: tifosi e avversari. L’Olimpico di quando la luce di Roma calava maestosa in un teatro che poi ha chiuso i battenti. Con la collinetta di Monte Mario che svettava fuori da un cielo inafferrabile. Quella era una Roma che nel Dna aveva impresso il Belli. Una città a testa alta: spaccona, paracula – e sti cazzi! -, che faceva l’occhietto”.

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