Pubblichiamo la prefazione di Marta Barone al libro di Matteo Moca Un’esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico edito da Liberaria. Ringraziamo gli autori e la casa editrice per la gentile concessione.
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Il modo di misurarsi con il mondo (e prendere le misure al mondo) di Anna Maria Ortese, è sempre stato la trasfigurazione del reale: una distorsione, uno scarto prospettico peculiare. È una delle cose che rende la sua scrittura così inconsueta ed enigmatica, la sua voce così singolare. Tutto, da quella voce e da quello sguardo stravagante e attentissimo, viene trasformato e ri-mostrato in una luce, e in un’ombra, nuove.
Un’altra caratteristica di Ortese è la natura metamorfica della sua prosa stessa. In Ortese i generi letterari, i piani e gli stilemi si confondono continuamente, e s’intrecciano così stretti che è impossibile distinguerne con nettezza i confini. Un reportage giornalistico o la visita a una città sconosciuta diventano divagazioni semioniriche (ma di precisione accanita) che sono tutte della visione di Ortese, in cui paesaggi, luoghi, oggetti, esseri umani prendono forme incantate o terribili; uno scritto autobiografico si tinge di sfumature allucinate, si allarga tra fantasmi, immagini del sogno e della memoria, si apre a digressioni immaginifiche e a impressionanti correnti visionarie; un romanzo fantastico con tutte le caratteristiche del “magico” si muove sulla stessa interrogazione identitaria dei testi apertamente autobiografici, e regola i meccanismi della sua narrazione, in modo nemmeno troppo occulto, sulle feroci logiche economiche e sociali del mondo reale; in un romanzo o in un racconto “neorealista” a un tratto emerge lo scarto di visione, come un sussulto del testo; e così via.
È da queste premesse che prende le mosse il discorso che Matteo Moca porta avanti in questo saggio: analizzando testi diversissimi fra loro e alcuni temi ricorrenti – la sofferenza dei più deboli, dei messi-al-margine, e la violenza del potere; la casa infestata del classico racconto d’incubo come, anche, metafora e immagine fisica della disperazione abitativa; la coazione al viaggio e il senso di esilio costante che percorre tutta l’esistenza di Ortese e si lega indissolubilmente alla sua scrittura; infine, la città patologica e le sue ricadute sulle vite che la abitano – ragiona sullo sguardo “fantasticato” della scrittrice come sorta di ultra-avvicinamento al reale, e solo modo per rappresentarlo. La lente scura attraverso cui Ortese guarda e trasfigura il mondo, che ha dato il titolo alla sua splendida raccolta di scritti di viaggio e reportage, è forse, ci suggerisce Moca, una lente d’ingrandimento ad altissima definizione.
Perché l’allucinazione, in Ortese, è un dispositivo specifico. Da un certo punto della sua produzione (soprattutto nel Porto di Toledo, la sua “autobiografia irreale”), lo scarto percettivo non è mai un mezzo di divagazione e allontanamento dalla realtà, ma invece uno strumento di conoscenza accuratamente controllato. Il mondo deformato e ricreato attraverso la scrittura di Ortese ci appare più direttamente, più precisamente, nel suo squallore, nella sua ingiustizia, ma anche nelle sue bellezza e tenerezza più vere, nel sacro nascosto del non immediatamente visibile. E allora, l’allucinazione diventa spinta estrema verso il reale più reale: oltre, quindi, il fenomeno puro, che viene spezzato e stravolto, e verso il mistero delle cose, che resta di per sé inconoscibile, certo, ma può aprirsi per un istante su un’intuizione di qualche genere. Forse, proprio quello sguardo a volte portato alla distorsione più assoluta è in realtà uno sguardo che ci mostra un lampo di una verità profonda.
È per questo, come dice Moca, che nei testi di Ortese, inevitabilmente, “il registro realistico vive […] in stretta simbiosi con i modi narrativi del fantastico e del meraviglioso”.
C’è un racconto, posto in coda all’edizione all’edizione Adelphi di Angelici dolori – la prima raccolta di racconti di Ortese, uscita in origine per Bompiani nel 1937, tra i “racconti dispersi” recuperati dal curatore Luca Clerici in giro per le decine di pubblicazioni dell’autrice sparpagliate su giornali e riviste (e mi piace molto quel dispersi, che ha in effetti qualcosa di lievemente ortesiano). È del 1958, e s’intitola Casa di bambola. La protagonista è una donna smarrita tra le angosce del quotidiano, la mancanza cronica di soldi, i conti frenetici, un affitto non pagato, una lettera di sollecito dell’amministratore, la possibilità molto concreta di perdere la casa dove abita – tutto descritto con la solita esattezza febbrile – e l’angoscia che proviene da “fenomeni cosmici” di origine incerta e inquietante, che portano il racconto su una strada stranissima, quasi distopica. Fuori c’è un inverno anomalo: “La temperatura, in Europa, era scesa fino a venticinque gradi sottozero, molta gente è morta di freddo nella propria casa, i viveri cominciavano a scarseggiare dovunque”. Inoltre, ci sono strani sommovimenti nel sole, che ha anche mutato d’aspetto nelle ultime settimane, e tutti sembrano aspettare che accada qualcosa di spaventoso, dalle proporzioni forse catastrofiche, in un sonnambulismo indifferente o con un’ilarità maligna e incomprensibile. E a un certo punto, mentre la narratrice si agita affannosamente in mezzo a tutto questo, un grido da animale in trappola le attraversa il pensiero: “L’Inverno, il Sole, l’Amministratore!”. Ecco che la vertigine celeste, la brutale imperscrutabilità della natura e l’orrore altrettanto imperscrutabile, altrettanto disumano, della vita pratica e delle difficoltà finanziarie, si fondono insieme con un colpo secco, diventano una stessa cosa gigantesca che schiaccia gli uomini e le donne e segna irrimediabilmente il loro destino. Ed ecco, quella frase che passa fuggitiva mi sembra una perfetta sintesi della poetica di Ortese, dove il quotidiano e l’intangibile, il terrestre e l’ignoto, il “mistero del cielo” e il “dolore dell’economia”, per citare una sua lettera a Natalia Ginzburg, hanno lo stesso portato simbolico e strutturale – e anche, mi verrebbe da aggiungere, un piano mitico.
È in questa prospettiva che Moca guarda, e prova a mappare in una costellazione meticolosa e piena di rimandi e suggestioni, la bizzarra e cangiante unione tra fantastico e reale in Ortese: atto conoscitivo, atto di conflitto, atto d’amore, stregoneria del linguaggio e rapporto sul potere, sempre sulla soglia “tra sonno e veglia, immaginazione e coscienza, allucinazione e memoria”.
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