«Potrebbe essere un’idea raccontare un ‘avvenimento’ e un sogno. Saremmo tutti contenti».

Il protagonista de Il pozzo – prima nouvelle di Juan Carlos Onetti a essere pubblicata e ora riedita da Sur con la traduzione di Ilide Carmignani – si accorge della stanza in cui vive per la prima volta quando comincia a scrivere, lo dichiara nell’incipit (frase che molti hanno imparato a memoria): «Poco fa stavo camminando per la stanza e di colpo mi è venuto in mente che la vedevo per la prima volta», tutto qui. Cosa significa? Il narratore ha deciso di scrivere le sue memorie – non importa se abbia talento oppure no – lui pensa che un uomo arrivato a quarant’anni debba fissare su carta i fatti che gli sono capitati, soprattutto se si tratta di cose interessanti e comincia a scrivere. Solo mettendosi a scrivere si vedono le cose per la prima volta, la stanza e i suoi arredi, e da lì, da una sedia e una parete, guardare il mondo, il tempo, guardarsi dentro.

Onetti ha scritto Il pozzo nel 1939, è la sua prima storia e comincia facendo una confessione e offrendo la sua prima lezione di scrittura. Scrivo e vedo per la prima volta. Solo chi scrive vede veramente le cose e può stabilire cosa sia narrabile oppure no, quale sia la differenza tra falso e vero. Osserva e quello che finisce sul foglio è il verosimile, non importa se la stanza e i suoi arredi esistano davvero, lo scrittore li ha visti e per visti intendiamo anche (e soprattutto) immaginati. Io descrivo una sedia e quella sedia di colpo esiste. Da questo piccolo gioiello parte tutta la narrativa di Onetti; un talento inarrivabile sorretto da un mistero, da un segreto che abbiamo provato a indagare più volte – qui: Realtà contro finzione: Su Onetti e qui: Gli addii – senza risolverlo, senza nemmeno arrivare a sfiorare l’idea di scioglierlo. E ne siamo felici, perché la letteratura non si può risolvere, la si può avvicinare, ci si può far accerchiare da una frase, da un paragrafo, da una pagina, ma lei poi di nuovo si allontanerà, lasciandoci tuttavia nell’incanto, nello stupore, facendoci sentire toccati dalla grazia.

Tutto quello che avevo scritto era solo un mucchio di fallimenti.

I personaggi di Onetti vengono dall’uomo che si accorge della stanza e di sé. Uomini delusi, insoddisfatti, pessimisti, cinici, visionari. Linacero, così si chiama, prende coscienza dell’esistenza, del tempo presente, non si aspetta molto dai giorni a venire. La vita stessa pare ondeggiare tra realtà e sogno, un altro elemento della poetica di Onetti che troveremo in tutte le sue storie. In questa storia c’è una profonda indagine su quello che siamo, su quello che saremo e – soprattutto – su quello che di noi potremo raccontare. Si tratta anche di un libro d’amore, come scrive bene Valeria Parrella nel testo che accompagna questa edizione. Un amore profondo e inafferrabile, dai contorni sfumati eppure pieno di fuoco, come accadrà poi in tutte le relazioni che compariranno nei successivi libri di Onetti. Il pozzo è il luogo in cui scendere per rintracciare ciò che si può raccontare. La materia umana, l’essere umano, sono il fondo del fondo del pozzo, regno dal quale Juan Carlos Onetti ha sempre tirato fuori l’incanto, che sempre ci accompagna quando lo leggiamo, rileggiamo, ricordiamo.

Ma la solitudine delle strade continuava a entrare nella Ford come le nuvole di terra ardente e niente poté mettere a tacere i ripetuti dinieghi con cui li accolse Santa Maria, dormiente e spopolata nel cuore del pomeriggio.

La stessa camera un po’ di pagine più avanti svanirà, in che modo? Ecco la seconda lezione di scrittura di Onetti. La stanza, i suoi oggetti, le persone che si trovano al suo interno in un dato momento svaniscono quando si manifesta la poesia. C’è una poesia scritta, pronunciata, ed ecco che la stanza (quindi tutto) scompare, perché i versi sono più potenti del reale, del confine. Quando la poesia esiste – ci ricorda Onetti – null’altro esiste, perché si regge da sé e tiene a sé le sorti di tutto. L’incanto de Il pozzo avviene in settanta pagine, tutte quelle che servono a fare un capolavoro.

[…]perché è qualcosa di interminabile, perché non esiste, perché la poesia è fatta, diciamo così, di quello che ci manca, di quello che non abbiamo.

L’altro romanzo pubblicato da Sur (ormai sono cinque i romanzi di Onetti usciti nella collana preziosa dedicatagli) nelle scorse settimane è Il Raccattacadaveri, traduzione di Gina Maneri, arricchito da un testo di Nicola Lagioia, capolavoro anche questo? Sì, perché tutta l’opera di Onetti si tiene e ormai non sapremmo dire quale romanzo venga prima o dopo, quale sia il più bello, il più importante, perché pare che Onetti abbia cominciato a scrivere la notte in cui Linacero vede la camera e poi, semplicemente, abbia continuato senza smettere mai.

Torniamo a Santa Maria, il luogo vicino al Rio de la Plata inventato da Onetti per rendere raccontabile ogni cosa, per farci stare dentro le case che occorrono, i bar scadenti, i personaggi che possono muoversi lentamente e lentamente parlarsi. Sollevare gli occhi o il bicchiere, entrare o uscire da una stanza d’albergo malmessa, toccarsi il cappello, guardarsi sempre in un misto tra rispetto e disprezzo. Rispetto e disprezzo, sentimenti che vengono entrambi dal riconoscersi. Santa Maria dove una voce singola presto si fa coro e prende a soffiare come il vento che spinge sul porto, come la goccia di pioggia che si fa temporale a fine agosto nei giorni di Santa Rosa. In questo romanzo troviamo due tra i personaggi più indimenticabili di Onetti: il dottor Diaz Grey (si veda La vita breve) e Larsen (si veda Il cantiere). Protagonisti straordinari attraverso i quali, lo scrittore di Montevideo ma pure di Buenos Aires, mette in scena tutta la nostra miseria e tutta la nostra capacità di sentire la disperazione e da questa farci avvolgere e poi provare a sfuggirle.

Tutto ciò che viene trapiantato a Santa Maria appassisce e degenera. Non ci preoccuperemo per una perdita.

Larsen è colui che in qualche modo scappa o viene cacciato da Santa Maria, e che a un certo punto ritorna, perché Santa Maria e i suoi contorni sfumati gli somigliano. La città è decadente e apparentemente ferma, intanto le cose accadono. Larsen che pare sempre sconfitto, che pare averne attraversate troppe, Larsen che mentre tutto pare crollare tira fuori un sorriso da dietro una sbronza, un’idea assurda in mezzo alle macerie. Larsen sempre in punto di morte, in punto di vita. Larsen che in qualche modo è sfruttato dai notabili di Santa Maria, Larsen che comunque ne trae vantaggio. Larsen capace d’amare e di vedere il grigio del tempo e dei giorni. Capace di ballare sopra a ognuno dei suoi fallimenti. Larsen straordinario, vincitore e perdente contemporaneamente. Destinato a cadere ma in quello scenario tira fuori il meglio di sé: triste, romantico, decadente, perfino saggio.

Solo così, credendo di sapere cos’è che muore, si può morire in pace.

Larsen che viene invitato a Santa Maria per mettere in piedi un bordello – perciò lusingato, attirato – Larsen che viene costretto ad andarsene – perciò beffeggiato, denigrato – è la somma di tutte le nostre mancanze, è la visione del mondo di Onetti, che ce lo fa amare nella stessa maniera in cui amiamo il dottor Diaz Grey: intelligente e meschino, attento e pauroso, impavido e misero. Larsen è il fallimento, una delle chiavi di lettura di tutte le storie di Onetti, Diaz Grey è colui che osserva, che pare scrutare dalle finestre, dagli angoli bui di un bar. Il dottore sarà sempre quello che porterà i messaggi non prenderà mai l’iniziativa di scriverne. Nel Raccattacadaveri poi un’altra carrellata di attori straordinari tutti in bilico tra la speranza, la ricerca di qualcosa e la rovina e sono Julita, divina e perduta, Jorge Malabia innamorato e drammatico, giovane e pazzo, Marcos sempre sopra le righe e in cerca non si sa bene di cosa, le ragazze del bordello sospese e luminose sopra all’eterno senso di perdita che permea il racconto.

Da allora sono passati anni, si sa. Adesso, rievocandoli, possiamo credere di vedere Santa Maria e i suoi abitanti così, com’erano, e non come li vedevamo allora. Nulla di essenziale ci lega ormai a ciò che ricordiamo; fondamentalmente, però, questa distanza non la dà il tempo ma il disinteresse.

Questi due romanzi insieme agli altri di Onetti, questo articolo e il suo autore testimoniano una vittoria e al contempo una sconfitta, ma di entrambe le facce di questa medaglia possiamo sorridere. Vince la letteratura di Onetti che ci arricchisce riempendo il nostro stato d’animo di visioni e di domande, che allarga il campo nel quale muovere il nostro immaginario, tutto sommato ci offre l’occasione per provare a sperare almeno in qualcosa, e quel qualcosa è la pagina scritta, la prosa che tiene e che frase dopo frase ci porta nell’ignoto e nel tempo in cui desideriamo stare. Perde il lettore, anche il più attento, perché capisce che il segreto di Onetti – come ha scritto Ricardo Piglia – il pozzo, appunto, dal quale nascono le sue storie, non può essere rilevato, mai lo sarà. In quel segreto però stiamo, leggiamo e rileggiamo, e in fondo non vogliamo capire, e nel nostro non sapere sappiamo, nel nostro non risolvere risolviamo.

 

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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