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di Salvatore Ditaranto

Caro Matteo,

che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani?

Mentre leggevo il tuo romanzo “La vita di chi resta”, continuavo a ripensare spesso all’incipit di “Seminario sulla Gioventù” di Aldo Busi. È il potere dei libri che ci rimandano spesso ad altri libri, ad altre storie e ad altre vite che non sono le nostre. Era nei passaggi del libro in cui accenni al tuo scrivere, al tuo lavorare con le parole, alla tua attività di autore, così intrecciata agli eventi narrati nel libro che mi chiedevo appunto cosa resta… a chi resta?

Poi pensavo alla tua scrittura, al tuo stile intendo, capace di alternare delle frasi sagaci al racconto dell’immenso dolore vissuto dal coprotagonista del libro, il suicidio della persona amata. Mi intrigava quella tua capacità di tenere uniti dei commenti taglienti a degli aneddoti di comicità nera, al limite dell’ironia acida. Il baffo ritoccato per la foto della lapide di S., il dramma che ti rende celebre in ufficio, la pranoterapeuta che non riesce nel suo intento, l’amico che ti consiglia – distrattamente per sbaglio – il libro in cui c’è un suicida. E poi la sensitiva potentissima, il commento sulle manager stressate con cui condividere il dolore: Fatevi una vita stronze.  Io ho riso in molti passaggi e mi sono chiesto: quando arriva il momento in cui si torna a sorridere dopo una perdita e addirittura dopo una come quelle di cui hai fatto esperienza, senza sentirsi in colpa? È grazie alla scrittura che sei riuscito? Di libri ne trovavi pochi, ammetti, è per questo che hai dovuto affidarti alla scrittura?

Mentre leggevo continuavo a visualizzare sia l’uomo che aveva fatto l’esperienza della perdita suicida, quasi 25 anni fa, sia lo scrittore che faceva capolino nelle pagine. Il primo lo immaginavo come un uomo vicinissimo ad una colata di lava, a distanza di tempo ormai raffreddata nella parte esteriore ma ancora rovente sotto (sarà stata la vacanza nelle Eolie raccontata nel libro a farmi venire in mente questa metafora?). Lo scrittore, invece, lo vedevo come se giocasse all’allegro chirurgo: capace di analizzare il dolore, sezionarlo, inciderlo e poi suturare le ferite.

Leggendo il libro mi è tornato in mente un ricordo di quasi vent’anni fa. Davanti a me, studente alla Sapienza di Roma, in Via Salaria, c’era il fondatore di ‘Tina (ricordo male una donna sotto il casco da parrucchiera con i bigodini?), lo scrittore di Generations of Love, l’autore simpatico di “Mi Ricordo”. Quello scrittore così sorridente, felice, gaio, in realtà ho scoperto leggendo, stava aspettando che si raffreddasse il magma che si era ritrovato in casa molti anni prima in una giornata di novembre, il mese più lungo dell’anno. L’ospite di quella lezione universitaria sorrideva e nel frattempo masticava caramelle al veleno.

Forse avrei dovuto scrivere due lettere, una allo scrittore Matteo B. Bianchi e un’altra al coprotagonista del libro Matteo Bianchi, ma poi ho pensato che forse sarebbe stato sbagliato dividere quello che il libro ha unito. Quante domande mi sono fatto leggendo: è solo grazie ai 25 anni passati che si riesce a scrivere di una perdita così traumatica e alternare memorie tragiche a ricordi che sfiorano la commedia? Sono questi ricordi, tragicomici, che ti hanno tenuto su mentre sotto di te si apriva una voragine? Mentre come un terremoto, improvviso, a tradimento, la vita di S. rimaneva sospesa (che poetica la copertina del libro!), è stata la tua voce di scrittore, intesa proprio come stile di scrittura, capace di tenere insieme i commenti sulla scelta orrenda di studiare violino jazz e i frammenti di Joan Didion e Susan Sontag a permetterti di sopravvivere? È stato quel tuo modo di percepire le cose, e di scriverne così, che ti ha dato gli strumenti per andare avanti fino ad arrivare oggi a riesaminare e trasformare quella materia incandescente in un libro?

Mentre leggevo “La vita di chi resta” ho pensato spesso ad un puzzle. È una cosa che mi hai suggerito tu quando scrivi “se scrivo questo libro a frammenti è perché dispongo solo di quelli”. Solitamente con i puzzle la strategia migliore è quella di formare subito la cornice e poi pezzo per pezzo completare l’immagine intera. Con il tuo romanzo, invece, ho pensato che il tuo puzzle potesse non avere confini. Eravamo partiti dal dettaglio del cadavere per terra e poi, piano piano, i pezzi si sono incastrati fino alle parole finali “che tu sia felice, S., ovunque ti trovi adesso”.

Ma il romanzo è come se non fosse finito lì. La vita di chi resta continua ad essere segnata dalla vita di chi non c’è più, a prescindere dal tipo di fine che si sceglie o che ci capita. Ciò che colpisce nel tuo caso è il continuare a immaginare che ci possa essere la felicità anche per la persona che ha deciso di andarsene. Pensare quella felicità, pregarla, sperarla e immaginarla non solo per sé stessi,  ma anche per la persona amata e perduta per sempre. Anche questo ti avrà aiutato a liberarti dai tentacoli della disperazione, anche questo ti avrà reso una nuova persona oltre che un rinnovato scrittore.

E dunque che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? (…).  Aldo Busi rispondeva così  a pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato. Non so se pensi anche tu a quello che hai vissuto come ad un mondo lontano, io immagino tutte le persone che ti hanno sentito vicino, sarà sempre quel potere che hanno i libri che fanno sentire i lettori e gli scrittore così prossimi?

p.s.

Ogni lettera che si rispetti ha il suo post scriptum. C’è un altro pezzo di letteratura che mi ha accompagnato mentre leggevo il tuo libro. È l’inizio di Autobahan di Tondelli Lacrime lacrime non ce n’è mai abbastanza quando vien su la scoglionatura, inutile dire cuore mio spaccati a mezzo come uovo e manda via il vischioso male…

 

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