Pubblichiamo, ringraziando editore e autrice, un estratto dal romanzo di Francesca Sensini Afrodite viaggia leggera, uscito per Ponte alle Grazie.

di Francesca Sensini

Saffo, il tempo, la saggezza
(sull’isola di Lesbo)

Non riuscivo a togliermi quell’inquietudine. Avevo preso la strada di costa, per rimanere accanto al mare. Camminavo lenta, come ero solita, ma sentivo salirmi alle caviglie, dai piedi freschi nell’aria del primo mattino, un fermento che mi affaticava, come se stessi correndo. Le

padrone non corrono, diceva mia madre Cleide, di spalle, continuando ad armeggiare sul telaio, in una stanza della mia testa. Dalla sua sagoma trasparente, di sogno, riconoscevo l’espressione del viso nascosto: sorrideva, lo strano spettacolo di sua figlia alle prese con sé stessa la disperava allegramente, da quando ci conoscevamo. La mia cara madre. E io cercavo di spegnere la mia agitazione a ogni passo, calcando la terra più forte, con tutto il mio peso, schiacciando sotto il sandalo quell’animale strisciante che mi si arrampicava addosso come una catena viva. «Salute a te, Saffo, signora». Erano due pescatori, dalla spiaggia. Distesi sui gomiti, riposavano in mezzo alle ceste cariche di pesci ancora guizzanti, succhiando a piene labbra teneri molluschi da conchiglie gocciolanti. Al mio passaggio si alzarono in fretta, malfermi, come reagendo a un ordine inatteso. Accennai una risposta con la testa, abbassai la fronte, tirandomi il mio velo azzurro sulla guancia, un gesto automatico.

Le loro figure, in controluce, erano un’unica sagoma scura, dai contorni diluiti, da cui affioravano scintillanti denti ferini. Gli animali che morivano ai loro piedi, invece, erano evidenti, a uno a uno, un massacro d’argento a due balzi dalla salvezza delle onde. Dalle branchie, che sbattevano come piccole porte, si intravedeva la carne irrorata dal sangue, sofferente. I pesci boccheggiavano mimando il mio affanno segreto. «Chi ti fa torto, Saffo? Chi devo persuadere ad amarti?» La voce di Afrodite mi si fece incontro come l’amica impaziente che, nell’anticipare l’arrivo della compagna più amata, esce di casa in fretta, a piedi nudi, attraversa tutto il giardino per sorprenderla sulla soglia, afferrarle le mani senza aspettare, guardarla e incenerire il tempo trascorso dall’ultimo abbraccio – un giorno e un anno – in un unico inestinguibile sorriso. E io le rispondevo: «Il tempo, mia dea». Il tempo mi faceva torto. Mentre dissipava le mie forze, la mia bellezza, ammassava dentro tutto l’amore che avevo conosciuto, procurandomi nostalgia dei baci passati e, insieme, desideri nuovi. Come si fa a essere una donna grande, saggia, e insieme una fanciulla

ostinata dentro lo stesso corpo? Avevo compassione di me stessa. Intanto, da giorni, affilavo contro il tempo ostile la mia volontà, una spada con cui ornare una maturità coraggiosa, che pure non volevo. Non sapevo maneggiarla. La sua lama aveva tagliato il roseto della mia passione. Le rose di Afrodite non mi ferivano più e, insieme ai graffi, anche il profumo era svanito. Mi sentivo vuota e opaca come i gusci delle conchiglie divorate dai pescatori, buttati nella sabbia. Nel frattempo, mia madre riprendeva ad animarsi nella stanza della mente, sporgeva il collo e la faccia in avanti, socchiudeva gli occhi, come se aspettasse una carezza, un

bacio. Distinguevo le rughe della sua fronte, diritte come i suoi pensieri. Davanti all’interezza di quella donna così amabile, chiusa nel suo enigma, mi vedevo spezzata, illogica, vile. Ma Afrodite mi tirava via, strattonandomi forte. «Ora basta, Saffo, lascia tua madre, vieni da me, sii mia alleata. L’altare è disadorno, le offerte si sono consumate. Bruciami nuovi grani di incenso, versa acqua per il mio bagno. Sentirai di nuovo le mie rose, e come graffiano». Quando entrai al tempio, accostai il portone di bronzo. Lasciai entrare solo una diagonale luminosa che tagliava

l’oscurità, rompendosi contro il piedistallo su cui si appoggiava la mia dea. Somigliava a un fulmine fragile ma senza tuono al suo seguito. Niente poteva disturbare la primavera eterna di Afrodite e io volevo assomigliarle, folle mortale. I suoi bracciali d’oro si attorcigliavano sul marmo dipinto di rosa del corpo. Pensai all’animale strisciante che volevo schiacciare poco prima, lungo la strada; lo sentivo ormai accoccolato nella conca del mio ventre. O erano le spirali delle mie stesse viscere? «Scioglimi da quest’angoscia crudele, Afrodite immortale dal trono screziato». Allargai le braccia verso l’alto, aprii lo sterno, levando la gola, offrendomi intera alla liberazione.

Faone mi aspettava all’incrocio di due strade appena fuori dalla zona del mercato. Da lì si andava verso il litorale sabbioso, sdraiato ai piedi dei costoni verdi dell’isola, bordato di alberi di tamarisco e olivo. Le case erano poche, ritirate dietro recinti di alti giardini con arbusti gialli e rosa di cassia. Quel giorno avevano attraccato a Mitilene due navi di mercanti egiziani e fenici. Erano state avvistate dai pescatori al largo già il giorno prima. Per questo ci eravamo dati appuntamento in quel luogo, in pieno giorno. Potevamo passeggiare insieme, per una volta, senza timore di occhi indiscreti. L’intera città era sciamata al porto.

Appena mi aveva visto sbucare dalla curva della strada, Faone si era messo lentamente in cammino. Ogni tanto si girava, per assicurarsi che lo seguissi. Lo raggiunsi dopo qualche minuto, senza fretta. «Non sono Euridice, mio caro Orfeo delle barche, ma Saffo. Stai tranquillo. E poi, se mai oggi Ade dovesse avanzare pretese sulla nostra vita, suonerei io la lira. Non rischieremo nulla» gli dissi. Il mio sguardo gli scivolò addosso veloce, ritirandosi dietro il velo come in una tana. Era andata da lui senza convinzione, con il sentimento di onorare un obbligo. Avrei voluto restare ancora con Afrodite, sola, chiusa nel tempio, ad ascoltare la sua voce. Dietro le mie parole si nascondeva un rimprovero. «Ti prendi gioco dell’angoscia di un innamorato, mia signora? Povero Orfeo e povero me» mi rispose, e mi sguinzagliò dietro i suoi occhi festanti. Erano troppo felici di vedermi per farsene qualcosa della mia inquietudine.

 

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