
di Giuliana Zeppegno
Drun. Tu-tu-tu-tu-tun. Ta-ta-ta-taaaaaaaa. Bum, bum, Buuuum! Eccone un altro! Tu-tu-tu-tu-tuuuun. L’aveva centrato in pieno, non si alzava più. Altri correvano come formiche in ogni direzione. Creso muoveva i pollici nell’aria, oscillando la testa dentro il casco. Il cuore gli batteva all’impazzata. Una leggera erezione gli premeva dentro i jeans.
Era diventato bravissimo in quel gioco che stava spopolando sul mercato. Era davvero come essere lì, su un drone che sorvolava rasoterra una città non meglio identificata. Più volte era anche riuscito a indovinare il posto, grazie all’aiuto della app e agli indizi sensoriali: la forma delle case o di ciò che ne restava, la temperatura, il colore della pelle dei cadaveri. Una scritta, quando eri fortunato. Se indovinavi: duecento punti in più.
Da quando i suoi gli avevano regalato il gioco, non riusciva più a staccarsene. Sceglieva quasi sempre il ruolo di attaccante, mentre la sorellina tendeva a sperimentarne di diversi: punti di vista da uno scantinato, da un ospedale, da una metropolitana. Più di una volta l’aveva trovata, dopo, accucciata in qualche angolo con gli occhi molto aperti, trasognati, incapace di parlare.
La cosa più eccitante di quel gioco, secondo lui e tutti i suoi amici, era non sapere se fosse reale o meno. Il sistema assegnava ogni volta un posto random, e non c’era modo di sapere se la partita si svolgeva nella realtà, con veri droni e vere case, o in qualche luogo immaginario della rete. L’effetto era esattamente uguale. Poco prima della fine del primo livello, si poteva provare a indovinare. In caso di riuscita, erano altri cento punti.
A scuola, le professoresse li avevano avvertiti della pericolosità del gioco. Dicevano che deresponsabilizzava, una parola molto lunga di cui Creso non aveva colto appieno il senso. Sua madre invece sosteneva che era una benedizione, perché impegnava in un’attività per un tempo superiore ai tre minuti. Il gioco, diceva, dava ai suoi figli un compito concreto da portare a termine.
Lui non aveva un’opinione in merito. Semplicemente, la sensazione di sganciare bombe a raffica con il solo movimento delle dita (era il livello superiore, il più alto, se riuscivi a centrare prima gli obiettivi prefissati con i droni) lo faceva sentire capace di qualunque cosa. La sua insicurezza, quella che sentiva a scuola e soprattutto nel cortile durante la ricreazione, scompariva come per magia. E così l’angoscia, e ogni frustrazione. Avrebbe dovuto incontrare Dalia dopo aver giocato al gioco. Allora sì che lei lo avrebbe visto.
Dopo cinquanta minuti dall’inizio, il sistema gli chiese se credeva di trovarsi nel mondo reale. La domanda si stagliò per un istante in mezzo al suo campo visivo, fucsia e lampeggiante, per poi minimizzarsi in basso a destra. Aveva dieci secondi per rispondere. Mentre pilotava il drone sopra una zona piena di macerie, Creso fece mente locale su quel che aveva visto e percepito. Edifici interamente rasi al suolo. Terra battuta, caldo. Gente riversa, odore di corpi in decomposizione. Il lamento di un bambino che gattona contro un muro, solo, nudo. Il colore della pelle indecifrabile perché coperto da uno strato di polvere rappresa. Cinquecento metri dopo, una distesa di tende sconfinata, immersa nel silenzio. Cliccò su “Not real”.
Il sistema si offuscò per un istante, la risposta era sbagliata. In quei casi si poteva proseguire o decidere di abbandonare, a seconda dell’effetto che faceva quell’informazione su chi stava combattendo. Creso aveva sempre abbandonato. Sparare addosso a gente vera sapendo che lo è non era come farlo senza esserne sicuri. L’ebbrezza si tingeva di una tonalità macabra, che interferiva con il divertimento. Quella volta però era così certo che le scene fossero virtuali che pensò a un bug, a un errore di etichettatura. Gli sembrava tutto estremo, come caricaturato. Entrò quindi nel livello successivo senza smettere di mitragliare.
Colpire gli obiettivi era un gioco da ragazzi: la location era una tendopoli, del tutto priva di pareti in muratura. Quando i rilevatori di calore si mettevano a brillare, Creso faceva fuoco. A volte, sulla stoffa delle tende, comparivano chiazze di sangue istantanee. Il più delle volte, figure urlanti fuggivano tenendosi per mano, senza meta. A Creso ricordavano ragnetti che si agitano dopo che si è sollevato il sasso sotto cui trovavano rifugio.
Se quella scena era vera – e non lo sembrava – era stata disegnata con estrema minuziosità. La polvere entrava nella gola. Le urla si levavano spasmodiche all’inizio, poi sempre più fioche. Cercando un riparo inesistente, le figure si spingevano verso le zone aperte, assurdamente chine su se stesse, per essere colpite da qualche altro gamer pochi metri dopo. Una quindicina di minuti più tardi Creso si stufò, era troppo facile. Fece planare il drone su un monticolo di terra, mise il gioco in pausa e si avviò in cucina in cerca di una coca cola.
Quando ebbe finito la merenda, gli venne voglia di ascoltare un po’ di musica e si dimenticò della sessione aperta, che mezz’ora dopo, in automatico, si azzerò e lo espulse. Con le cuffie nelle orecchie, scese in strada. Natalia era ancora a scuola. Sua madre non sarebbe ritornata fino a due ore dopo, e suo padre sarebbe stato in giro con il camion fino al giorno successivo. Si diresse verso il centro, con il trap sparato contro i timpani alla massima potenza. Era febbraio ma sembrava quasi maggio. In giro, turisti di diverse nazionalità si assiepavano davanti alle vetrine. Il clima era festoso, spensierato. Fu allora che, svoltato in una via laterale, lo vide.
Era un braccio staccato dal corpo. Stava in mezzo alla strada, con la mano aperta verso l’alto. Creso ebbe un sussulto, smise di respirare. Fu sul punto di scappare, poi la curiosità prevalse. Si avvicinò col cuore in gola: notò la mano livida, minuta, con le unghiette blu. Era il braccio di un bambino. Alzò gli occhi in cerca di qualcuno, ma la via era deserta. Non aveva nessun senso e lui rimase imbambolato per un po’, in balia di quella musica assordante. Allora vide il sangue. Una traccia come di animale trascinato, qualche metro in là. Poi un’altra. E un’altra ancora. Inciampando, si lasciò guidare dalla scia fino all’angolo con la piazzetta.
Nello spazio aperto tra le case non c’era nessuno. Solo un bimbo di pochi anni steso su un fianco, sull’acciottolato. Del suo corpo c’erano il tronco, il braccio sinistro, e la faccia, con i grandi occhi opachi che sembravano guardare lui. Le gambine si trovavano, staccate l’una dall’altra, qualche metro indietro. Tutt’intorno, il sangue aveva formato una pozza rosso scuro dall’odore nauseabondo. Creso crollò a terra come un sacco. Le cuffie andarono a schiantarsi e d’improvviso fu il silenzio.
Si svegliò in ginocchio, scosso da un conato di vomito che lo liberò in pochi secondi della coca cola. Non riusciva ad alzarsi. Gli occhi spenti del bambino occupavano tutto il suo campo visivo. Riuscì solo a rantolare qualche verso, di terrore, di pietà, di incomprensione, prima che braccia adulte lo sollevassero di peso e che un volto femminile comparisse a due centimetri dal suo. La voce gli arrivò come attutita: Ehi, ehi, non dovresti essere qui. È tutto finto. Hai capito? È tutto finto.
Creso non capiva. Tremava. La donna gli teneva il viso tra le mani. È una messinscena, diceva. È tutto finto. E lo obbligava a seguirlo dietro l’angolo, dove altri corpi di bambini mutilati erano disposti a terra, a formare un semicerchio degli orrori, dietro cui era spiegato lo striscione “Stop genocide” tenuto alto da attivisti sui due lati.
Adesso Creso li sentiva, i cori “Ceasefire now”, “Ceasefire now”, “Ceasefire now”. E metteva a fuoco poco a poco, a fatica, tutte quelle persone lì davanti, che battevano le mani, sventolavano bandiere, scattavano fotografie ai fantocci iperrealistici per terra.
È tutto finto, ripeté la donna, tenendolo per mano. È una messinscena.
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immagine © Israeli Army/AFP
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
Ha spessore e utilità’ questo racconto. Describe una realtà sulla linea di confine. Precisamente dove siamo noi, noi che abbiamo perso il senso del limite, capaci di ritrovarlo solo quando e’ troppo tardi. Da certe esperienze si impara solo una cosa: che abbiamo perso qualcosa di fondamentale… le emozioni che fanno da compasso e contrappunto alle nostre esistenze. Tecnicamente stiamo volando, ma in realtà’ siamo dentro ed in fondo al pozzo sempre più’ buio di noi stessi… e dopo un po’ non vogliamo neanche più’ vedere il tondo di cielo lassu’ , sempre più’ in alto, che ci indica un uscita…. Continuiamo a scavare.