
I giorni non sono tutti uguali ma ci vuole molto a capire perché. Un pomeriggio d’autunno del 1985 ti trovi a camminare per la prima volta nel quartiere universitario di Monaco. Sei nervoso, tra poco avrai la prima grande (per modo di dire, ma sei giovane, la relatività non è ancora una costante del pensiero) occasione della tua vita professionale. Nervoso come quando riconosci che sei fortunato ma non immagini il perché. La Fiera di Francoforte si è appena conclusa. Un libro è sulla bocca di tutti: Il profumo. E tra le tantissime richieste d’intervista all’autore e proprio mentre il romanzo sta per essere tradotto in decine di paesi, l’unica accettata, a quanto mi risulta, è la mia. Eppure scrivo con una Olivetti 32 blu per un mensile poco noto.
Il quartiere è deserto, dall’Englischer Garten arrivano spensierate vibrazioni giovanili. Suono al citofono. È un numero: ricordo l’undici. Salgo fino alla mansarda. Lui è magro, alto, stempiato; scriverò che la fronte, molto ampia, è attraversata da meridiani e paralleli di vene. Ripensandoci, era la tipica esagerazione giornalistica. I suoi occhiali hanno la montatura sottile di metallo e sono appena più grandi degli occhi. Patrick Süskind mi accoglie sorridente e dice:
Parliamo ma niente appunti e niente registratore.
Aveva già rifiutato di farsi fotografare per il giornale.
Quindi quello che mi ricordo e basta?
Sì.
Non c’è come dover ricordare per dimenticarsi di ricordare.
Parliamo per un’ora o due della storia di Jean-Baptiste Grenouille e del suo olfatto portentoso, della sua ossessione/maledizione per gli odori, delle solite cose che si chiedono a un romanziere: ricerche, letture, analogie personali. Cerco di memorizzare ma mi distraggo perché è chiaro che a lui l’intervista non interessa minimamente, non ha niente da dire oltre a quello che c’è nel romanzo (e fino a qui è in buona compagnia); di più, è lampante che non avrà più nulla da dire a nessun giornalista; anzi, è evidente che forse non scriverà più, perché a 36 anni pensa di aver fatto abbastanza, due anni di lavoro per Il profumo, incluso un sopralluogo in Provenza. Si era mostrato a sufficienza. E poi aveva già scritto un monologo di grande successo, Il contrabbasso. La sensazione è che avrebbe voluto fermarsi a quel testo. Insomma, mentre parla è palese che, così come ha messo la testa fuori per un attimo (chissà perché e soprattutto, perché per me), tornerà a immergersi in una vita “normale”, non fosse lui, l’autore di un bestseller internazionale da decine di milioni di copie, da cui poi faranno film e serie tv. Quel personaggio è distante da lui quanto da me. In mezzo alle risposte che tento di appuntarmi in testa, s’insinua una scoperta che sul momento non mi piacque. Vivere, questo gli piaceva, molto, e molto più di scrivere. Dov’era l’urgenza sofferta che mi aspettavo, le ossessioni alle quali non era potuto sfuggire se non diventando uno scrittore?
Finita l’intervista, Süskind indica una grande, sinistra sedia di legno scuro in mezzo alla stanza.
L’ho scritto seduto anche lì.
Cos’è?
Una vecchia comoda.
Ah.
In questi 37 anni abbiamo continuato a scriverci (lettere) e a incontrarci (saltuariamente, ma come se ci fossimo appena salutati). L’ultima volta poco prima del Covid. E se all’inizio cercavo ancora l’autore – resisteva la tentazione di un piccolo scoop, alimentata dal suo eremitaggio sempre più estremo – negli anni mi sono arreso a incontrare un uomo senza scrittore annesso, diventato un puntino nel retrovisore, fino a scomparire. Un uomo gentile, interessato alle sorti dell’altro, un corrispondente sollecito ma irremovibile. Niente interviste. Non ho niente da dire d’interessante…
Non è vero che abbia smesso completamente di scrivere e pubblicare: ancora pochi racconti nella tradizione di Zweig e Il piccione, novella kafkiana su un dettaglio sgradevole che da insignificante si allarga fino a diventare un’ossessione. Negli anni ha rifiutato interviste, premi, apparizioni e fotografie (facendo causa a chi provò a riprenderlo di nascosto nella sua casa sui Pirenei), diventando il più segreto degli scrittori, privo anche dell’espressione violenta dell’ultimo Salinger; anzi, il più segreto tra gli ex scrittori.
All’epoca in cui uscì Il piccione c’incontrammo a Parigi. Salii nella sua chambre de bonne tra il sesto e settimo arrondissement –anche lì aveva scritto parte del Profumo. Era minuscola, ancora un ultimo piano senza ascensore. Così piccola che tavolo e sedie incombevano dal soffitto e solo quando ne aveva bisogno le calava con un ingegnoso sistema di corde. Di notte risalivano. Bravissimo a fare cose con le mani. Ci siamo incontrati nella sua casa sui Pirenei e a Milano; l’ultima volta su un grande lago bavarese, in una casa molto più confortevole delle precedenti, vicino a dove è nato. Ha cucinato con cura, ha sfoderato un italiano impeccabile, abbiamo camminato sotto la pioggia di dicembre e come sempre ho percepito la sensazione contraddittoria di essere sì limitato dai noti vincoli (niente intervista, non meniamocela troppo con la letteratura) ma proprio per questo avvantaggiato. Una sorta di premio. Per esempio il beneficio di parole senza secondi fini.
La mia intervista uscì e nessuno se ne accorse (capii così il perché del colpo di fortuna), non è su Google, ho perso il ritaglio, travolta dal desiderio di cancellare ogni traccia di quel passato. Nel pomeriggio del 1985, davanti alla sedia di legno scuro, poi alle successive, quelle dei bar, delle cene o di chiacchiere ridanciane sull’ironia terribile delle banali esperienze quotidiane, ogni volta che sono entrato in contatto con lui, ho vissuto un benefico distanziamento da ciò che intanto si andava costruendo attorno, un peso invisibile sopra l’esistenza: quel nostro daimon involontario ma fotografabile, replicabile e standard, in cui citazioni, promozioni, premonizioni, condivisioni, calcoli, diventeranno sabbia nell’ingranaggio di vivere, offuscando attenzione, memoria. In quel giorno del 1985 il colpaccio c’è stato: incontrare chi mi avrebbe tenuto con i piedi per terra, avvisandomi, con il proprio rifiuto (fiuto?), di quel futuro capitalismo della sorveglianza che oggi si appropria dell’esperienza per usarla come materia prima da trasformare in dati, noi in altro da noi. Forse c’entra, Il profumo era il libro preferito di Kurt Cobain: «Ho letto Il profumo di Patrick Süskind una decina di volte nella mia vita e non riesco a smettere di leggerlo».
È nato a Milano nel 1959. Giornalista culturale e professionista in campo fotografico, ha pubblicato Scazzi (Mondadori), scritto insieme al figlio, i saggi Photo Generation (Gallucci) e L’ultima foto, un dialogo con Enrico Ratto (Seipersei), i romanzi Sospensione (Centauria) e Come un mattino texano (Polidoro Editore), il saggio biografico Ballardland (Italo Svevo – Biblioteca di letteratura inutile) oltre a racconti su «Nazione Indiana» e «minima&moralia».
Grazie per aver condiviso questi ricordi, di averne fatto un piccolo e prezioso racconto.
Mi viene da dire che è un vero piacere appropriarsi di queste sue personali esperienze vissute con Süskind. Le uso come materia prima da non trasformare mai, da conservare, da custodire. Credo sia questo l’unico modo per restare me stesso, il vero me stesso.
custodire senza trasformare. ha ragione. e grazie
Michele